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Il 23 marzo 2004 la cantautrice Joanna Newsom, arpista e pianista, pubblicava The Milk-Eyed Mender, primo passo della fulgida carriera di un’artista versatile, vulcanica e misteriosa che, come una sua collega poco più grande di lei, Fiona Apple, ha voluto – e saputo – centellinare con rigore, spontaneità e coerenza le proprie pubblicazioni discografiche, i propri tour e le proprie apparizioni pubbliche. Finora ha dato alle stampe soltanto quattro LP in studio tra questo debutto e Divers, uscito nel 2015, a oggi il suo ultimo lavoro. Non che la quantità e la densità di materiale contenute in ognuna di queste uscite lasci a desiderare, ovviamente: questo debutto, Ys e Divers durano tra i cinquanta e cinquantacinque minuti, mentre il terzo disco, Have One on Me, pubblicato nel 2010, è addirittura un triplo che contiene al suo interno due ore piene di musica, e ciascuna opera è intensa e bruciante come lava che scorre.
The Milk-Eyed Mender è forse, insieme a Divers, il disco più tradizionale di Joanna Newsom, sia per la sua organizzazione interna sia per il tipo di forma-canzone che offre, anche se la definizione di ciò che è “tradizionale” nell’universo di Newsom è decisamente discutibile. Proprio la cosiddetta forma-canzone, che qui potremmo chiamare in causa per quanto concerne la durata dei brani, è sin da subito sottoposta a una specie di autopsia: fatta a pezzi, studiata con la lente d’ingrandimento, analizzata e messa a durissima prova, viene ricomposta, infine, all’interno di un qualche indecifrabile e ambiguo equilibrio che sta in piedi con naturalezza e con grazia: è una fragilissima precarietà che pare debba cadere da un momento all’altro ma che in realtà resiste ai rovesci e al passare del tempo come una solida roccia.
Se ci catapultiamo indietro di vent’anni e proviamo a immaginare di ascoltare per la prima volta questo disco senza poter prevedere tutto quello che Newsom avrebbe creato nei successivi dieci anni, non potremmo che definire quest’opera «a truly surreal experience», come scrisse, recensendo quest’album, James Fraser per il Village Voice. Basta già il pezzo d’apertura a catapultarci in un mondo lontano e fatato, una terra che esiste ancora in qualche universo parallelo in contemporanea col nostro. In “Bridges and Balloons”, infatti, un’arpa detta le danze, le dirige e le tesse come fili preziosi e potenzialmente infiniti, le incanala in un battito di epifanie e di ricerche, mentre la voce riempie, dipinge e incrocia quei fili, arrampicandosi sopra torrioni lucenti di una città medievale che nasconde insidie e magie.
Proprio di magia è infusa la produzione musicale di Joanna Newson, e questo album di debutto non fa eccezione. Esso rappresentò per Newsom un biglietto da visita di enorme valore: una delle voci più originali e spiazzanti del panorama musicale del decennio si stagliava improvvisamente all’orizzonte, e non in punta di piedi, ma con coraggio e con spavalda ambizione; e si trattava non semplicemente di una voce straordinaria ma di una che era assolutamente fuori dal tempo e da qualsiasi possibile etichettatura, classicheggiante e avanguardistica al medesimo tempo, che si nutriva del folk più fiabesco e ipnotico rendendolo ancor più appiccicoso e nodoso. Ti insegue ovunque tu vada e tu ne sei attratto e al tempo stesso spaventato. I saliscendi sonori e le sfumature che paiono portare alla luce un passato ormai nascosto e ineffabile delle fiammate quasi celtiche di “Peach, Plum, Pear” o della elegante e poetica “Sadie” non sono musica di questo tempo e per questo tempo; escono dalla linearità cronologica e propongono, invece, una circolarità e un’estensione spazio-temporale dinamica che anticipano le derive ancor più oniriche e palpitanti di Ys e di Have One on Me, i picchi assoluti della produzione di Newsom.
Autentica e genuina, già in questo debut album la voce di Newsom va di pari passo con gli strumenti che la accompagnano, divenendo loro contraltare perfetto. Nella ninnananna-filastrocca “This Side of the Blue”, mentre sembra spogliarla lentamente del velo che la nasconde, Newsom ci guida dentro alle insidie e alle carezze che la dimensione in cui lei si muove e di cui canta implica: «And I find myself knowing / The things that I knew», canta, «Which is all that you can know / On this side of the blue», mentre l’arpa e il pianoforte imperversano al suo fianco, suoi fedeli cavalieri, finendo per creare un’acquaforte magnifica. La fulminante e dall’andatura a mo’ di carillon “Inflammatory Wit” mostra il lato più scanzonato e ironico di Newsom, che emergerà sempre qua e là nei suoi successivi dischi, mentre composizioni teatrali e labirintiche come la emozionale “Three Little Babies” mettono al centro i virtuosismi vocali mai fini a se stessi dei quali la cantautrice è capace, anche questa una caratteristica che non verrà mai nascosta nei lavori seguenti.
Definire strano, inusuale e inafferrabile il canone offerto da Newsom è addirittura limitante. Nella voce di Newsom si possono percepire alcune sfumature delle voci di Kate Bush, di Björk, persino di Carole King, ma non sono solo il suo timbro sagace, col quale non è facile andare d’accordo da subito, o la tecnica e il controllo straordinari che Newsom sa imporle che colpiscono; a incantare è, piuttosto, la disinvoltura con la quale si incunea in ogni singola sillaba, con la quale si arrampica in ogni singola nota, con la quale interpreta e occupa e vive testi complessi, profondi, poetici. In The Milk-Eyed Mender, che pure è un album meraviglioso, tutto questo è solo all’inizio: quello che seguirà, in particolare il secondo e il terzo lavoro, dimostrerà che il respiro che Newsom possiede è ancora più ampio e stratificato di quanto già non fosse qui. Nella sua schiettezza e ricercatezza, The Milk-Eyed Mender è un eccellente showcase di tutto ciò che Newsom sa offrire a livello compositivo, strumentale e vocale, tutti elementi che diventeranno ancor più fini e compiuti nei dischi che seguiranno.