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Anohni and the Johnsons @ Pala De André – Ravenna, 15/06/2024
Sabato scorso al Pala De André di Ravenna, all’interno del cartellone del Ravenna Festival 2024, è andata in scena una toccante ed emozionante riflessione sull’esistenza, su cosa ne sarà dell’essere umano e della Terra nella quale vive e sulla speranza o, meglio, su quel che resta di essa. Non solo, però: al centro dello spettacolo di Anohni and the Johnsons, al loro primo tour in nove anni, vi sono il ruolo delle donne – e, incidentalmente, quello degli uomini – nel mondo e la necessità di creare una “social catena” per non smettere di sperare e per provare a salvare quello che è ancora possibile salvare di questo mondo e di noi stessi. Non ci sono risposte univoche: il cantiere è aperto mentre la preghiera nella quale paiono immersi gli spettatori, in un palazzetto dello sport quasi pieno, si tramuta ben presto nella consapevolezza di dover agire e di dover indubbiamente lottare.
È così che il tutto, tra curiosità, meraviglia ed estatica tensione, procede. Inghiottito in questa «wreckless hope», da Anohni stessa citata, che è un tormento ma anche una sfida affascinante e alla quale non possiamo sottrarci, il secondo spettacolo di questo tour europeo di Anohni and the Johnsons, dopo il debutto di Atene di due sere prima, è una sublime conciliazione con ciò che di bello è ancora possibile ricercare e trovare in un mondo guidato da violenza e follia. La cantautrice britannica naturalizzata statunitense è uno degli artisti più credibili e sinceri nel proporre questo tipo di discorso e di riflessione. Si dà al suo pubblico con i ritmi che ritiene più giusti e proficui per lei. Il quinto album inciso con la sua rinnovata band Johnsons, infatti, è arrivato lo scorso anno a distanza di tredici dal precedente. Negli anni trascorsi tra il quarto disco e l’ultimo, Antony aveva cambiato il suo nome in Anohni, divenendo, infine, una donna, e, dopo che tra 2012 e 2014 erano usciti ulteriori singoli, soundtrack e dischi live del gruppo, vi era stata la pubblicazione di un LP e di un EP firmati da Anohni solista tra 2016 e 2017. Gli ultimi concerti dei Johnsons risalivano al 2015, mentre gli ultimi da solista di Anohni al 2017. Il ritorno ai palcoscenici era, dunque, attesissimo e carico di aspettative.
Lo show prende le mosse con l’inquietante performance di una figura mascherata e velata che comincia a muoversi sospettosamente e silenziosamente sul palco dopo che i musicisti hanno preso posto sul palco. Dietro, sullo schermo, scorrono immagini, cosa che accadrà per quasi tutto il concerto. Passano pochi minuti e Anohni entra finalmente sul palco. Vestita di bianco, avvolta da un abito tanto fascinoso quanto misterioso, è anche lei velata nel corso del primo brano, il gospel lirico “Why Am I Alive Now?”. Al suo fianco ci sono nove musicisti, uno dei quali è il direttore degli archi. A spiccare nel sound sono soprattutto il pianoforte a coda, le chitarre, la batteria particolarmente elegante e curata e gli archi stessi. Gli strumenti sono tutti pizzicati con una sensibilità e con una cura straordinarie, con la finalità di abbracciare e di modellare la poderosa voce di Anohni, un’esperienza che faticheremmo a definire di questo mondo.
La scaletta è una saggia, equilibrata e “democratica” commistione di classici e di brani tratti dai lavori più recenti di Anohni. C’è spazio per diverse canzoni, ben tre, tratte dal secondo disco dei Johnsons, il loro breaking album I Am a Bird Now, come anche per il successivo e altrettanto convincente The Crying Light. “Man Is the Baby” è poetica e fragile, preziosa nel suo svelarsi di fronte ai nostri occhi con leggerezza e con grazia. Altrettanto belle e precise sono le esecuzioni di “Everglade” e di “Another World”, geometriche e al tempo stesso efficaci e spontanee. Particolarmente vivide sono la gemma “You Are My Sister” e l’affascinante “Her Eyes Are Underneath the Ground”, accolta con grande emozione dai più ricettivi e attenti, eseguita da un’Anohni col volto nuovamente velato.
Non soltanto il passato, come dicevamo, è al centro dello spettacolo. Anzi: gli occhi e la mente sono proiettati al futuro e ben radicati nel presente poiché il messaggio politico e sociale della musica di Anohni, dieci anni fa come oggi, è più attuale che mai. In quest’ottica c’è spazio, quindi, anche per il debutto assoluto di un brano inedito, “Breaking”, e per le eccellenti e scatenate versioni di altri momenti pregevoli dell’ultimo disco come “It Must Change” e “Can’t”. Una spettrale e magnifica esecuzione di “Cut the World”, composizione risalente al 2012, tiene il pubblico col fiato sospeso dal primo secondo all’ultimo e la voce di Anohni sembra aver preso possesso del palazzetto intero: gli spettatori, quasi disorientati davanti a tanta bellezza, ascoltano in religioso silenzioso, sorpresi e disorientati dal fatto che a un certo punto il brano debba finire. Il dolore sprigionato dall’interpretazione vocale di Anohni e la carica emotiva della sua gestualità corporale e dell’espressività del suo viso squarciano questa surreale sensazione di un fiato sospeso trattenuto potenzialmente in eterno. Nella gemma “Manta Ray” gli arpeggi di chitarra appena accennati di Jimmy Hogarth, il produttore dell’ultimo disco dei Johnsons, potrebbero assomigliare a schizzi di action painting su una tela che rappresenta, però, l’intera galassia tinteggiata di qualche fioco brillio in mezzo a un buio infinito.
A un certo punto compare sullo schermo lo stesso volto presente sulla copertina dell’ultimo disco di Anohni and the Johnsons, My Back Was a Bridge for You to Cross, uscito lo scorso anno: si tratta dell’attivista LGBTQ Marsha P. Johnson, che è colei che ha ispirato anche il nome alla band. Nel video, risalente probabilmente ai ’70s, Johnson espone alcune riflessioni in merito alla difficoltà di far valere i diritti sociali e quelli civili in USA in relazione sia al mondo omosessuale e transgender sia a quello afroamericano. Estremamente vicina a questo discorso è la scelta di Anohni di eseguire il traditional “Sometimes I Feel Like a Motherless Child”, che pare esprimere la terribile condizione che per lunghi tratti ha percepito e vissuto su di sé lei stessa, quella di sentirsi parte di una minoranza spesso isolata e non accettata dalla maggior parte della società. Prima di eseguire questo spiritual legato al mondo della schiavitù, declinato in una versione dolorosa e straziante dove, oltre alla voce, sono archi e chitarre a farla da padrone, Anohni ricorda Jimmy Scott, il cantante jazz la cui versione di questo brano è il punto di riferimento di quella eseguita dal gruppo, e Lou Reed, uno dei primi ad accorgersi del talento vocale e compositivo dell’autrice, che ha ispirato anche un brano contenuto nel loro ultimo disco.
I brani tratti da Hopelessness, il meraviglioso LP elettronico di Anohni uscito otto anni fa, perdono parzialmente la dimensione claustrofobica e oppressiva che li contraddistingueva nel disco e assumono una veste che è ricamata dal soul, dal gospel e addirittura dal funky, pur continuando a veicolare un pessimismo cosmico difficilmente superabile. “4 Degrees” continua a essere un meraviglioso macigno con cui è difficile scendere a compromessi. La “disperata vitalità”, per citare Pier Paolo Pasolini, di “Drone Bomb Me”, dove il narratore, nell’estremo momento della fine, pare sovvertire le regole e le impressioni raccolte nel corso della sua esistenza, e la lucida preghiera che è “Hopelessness” sono splendide in questa nuova forma, fedeli all’originale nell’intento e nell’impeto ma radicalmente differenti nella delivery e nella performance.
La chiusa dello show, dopo una brevissima pausa condita da un altrettanto breve ritorno della figura velata che era comparsa all’inizio, che sancisce l’imminente arrivo dell’encore, è affidata al brano forse più amato, di sicuro il più noto, nel repertorio dei Johnsons, “Hope There’s Someone”, canto laico e a suo modo divino che mette al centro della narrazione comprensione, tenerezza e la naturale paura per quel vuoto tremendo che ci insegue senza sosta e che tenta di raggiungerci. «Hope there’s someone / Who’ll set my heart free / Nice to hold when I’m tired», canta Anohni qui per l’unica volta seduta al pianoforte, «There’s a ghost on the horizon / When I go to bed / How can I fall asleep at night? How will I rest my head?». Benché immersi in una situazione che è hopelessness, per tornare a citare il titolo di un brano in scaletta, e senza vie d’uscita immediate, o quantomeno semplici, provare a coltivare una qualche speranza nella – e oltre la – disperazione che ci avvinghia sembra l’unica risposta chiara e sicura che Anohni vuole darci. Grazie alla sua voce divina e alla magistrale performance dei Johnsons siamo tutti convinti che abbia ragione.
(Live report e foto di Samuele Conficoni)