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Il Primavera Sound per l’edizione 2024 torna in tutto e per tutto un festival di Barcelona, il festival per eccellenza che, insieme al Sónar ha trasformato la capitale catalana in uno dei luoghi di culto della scena musicale europea e mondiale. Dopo l’esperienza complicata dalle condizioni meteo e logistiche di Madrid 2023 e i due weekend della storica edizione post-lockdown del 2022, il Primavera Sound torna alla dimensione più umana e sostenibile dell’ultimo weekend di maggio al Parc del Forum.
In linea con il claim Created in Barcelona, quella scritta luminosa e abbagliante che non è mai stata aggiornata o rivisitata. Unica novità sostanziale nella disposizione dei palchi, quella che non avremmo voluto, ovvero uno stage dedicato a Steve Albini, nel primo anno in cui per forza di cose gli Shellac non hanno suonato nel festival che hanno sempre amato (a loro è stato dedicato un listening party di tributo in quello stage, nel corso del day 1), l’unico grande evento cui si siano concessi nella loro gloriosa e indipendente epopea.
Lo spazio costruito in occasione del Fòrum Universal de les Cultures che festeggia proprio quest’anno il suo ventesimo anniversario, ospita il Primavera dal 2005 e, ancora oggi, con qualche piccola ristrutturazione, resta lo spazio ideale per accogliere un festival di queste dimensioni. Senza più, come già lo scorso anno, l’appendice balneare del Primavera Bits, è come tornare agli spazi del 2015 benché risistemati e, nel caso dei due main stage, leggermente ampliati con i due palchi affiancati, l’ultimo sotto le 200mila presenze complessive nell’arco del weekend.
Per chi non c’era quell’anno, uno dei primi in cui si percepiva una sorta di sovraffollamento, si parlava di 195mila presenze (55mila circa al giorno con headliner quali The Black Keys, The Strokes, Ride, Interpol, Underworld, The Replacements). Oggi si parla di 268mila presenti, ovvero quasi 90mila di media al giorno (con prevalenza di persone da Spagna, UK, USA e Italia, tra gli oltre 130 paesi di provenienza del pubblico) e, pur essendo stata ormai abbandonata la logica dell’headliner, i nomi scritti in grande sono Pulp, Vampire Weekend, Justice, Lana Del Rey, The National, Disclosure, SZA, PJ Harvey, Mitski e Charli XCX.
È abbastanza intuitivo comprendere come il numero di presenze non dipenda più dal peso dei singoli artisti che quest’anno, tolta Lana Del Rey (unica giornata praticamente sold out), non hanno quella dimensione di culto planetario in grado di monopolizzare il pubblico di una singola serata, ma il valore dell’esperienza complessiva. Un’esperienza costruita per una comunità di persone con gusti, percorsi e modalità di fruizione molto diversi e che ha trovato un virtuoso equilibrio non scontato in una platea di quasi 100mila persone al giorno.
Non è un caso, ma da quando il Primavera Sound ha iniziato a lavorare alacremente alla creazione di uno spazio sicuro, rispettoso, tollerante, severamente ostile a ogni forma di violenza e prevaricazione, il festival gradualmente è cambiato. Quel “new normal” che nel 2019 veniva deriso soprattutto dalle nostre parti per il proposito molto radicale di programmare una line-up con perfetto bilanciamento di generi, sembra aver dato i primi frutti. E i numeri danno ancora ragione, senza intaccare in senso tossico o poco rispettoso l’esperienza delle singole persone che partecipano al weekend del festival.
La storia di un successo non annunciato, o di un vero e proprio miracolo.
Seguire un percorso narrativo coerente ed esauriente è come sempre impossibile e, come sempre, si sarebbe potuto scrivere un report alternativo fatto di tutti i nomi cui si è rinunciato per le dolorose sovrapposizioni (vedi Bikini Kill, Romy, e Roisin Murphy restando tra le regine del day 3, mentre ha dato forfait qualche settimana prima fka twigs), quindi varrebbe la pena andare a ritroso e partire dal sabato dove nei palchi maggiori erano presenti, solo artiste. Unica eccezione? Le due scommesse in apertura, i promettenti australiani Royel Otis (tutto ciò che vi piaceva dell’indie tra 2008 e 2013 ma in chiave più chiasosa e esplosiva, e autori della canzone del teaser del 2024) e i talentuosi, forse pure troppo, The Lemon Twigs (una botta di revival post-Beatles, pettinatissima e impeccabile), entrambi riproposti nella domenica di chiusura allo storico quartier generale Sala Apolo della programmazione A La Ciutat, insieme ai fragori più spigolosi e no wave/post-punk di Mandy, Indiana e Model Actriz (tra gli highlight della domenica). Dicevamo delle headliner del sabato, in uno scenario in parte rovinato dalla prima vera pioggia degli ultimi dodici anni di festival che però, a suo modo, ha reso ancora più magico il set di PJ Harvey e quello di Mitski, in un’atmosfera nottura e autunnale davvero inedita per la Barcelona di fine maggio/inizio giugno. La stessa che ha reso unico il live di Liberato, dai racconti di chi c’è stato sfidando le intemperie. Prima di loro un’altra grande promessa che è passata presto sui palchi maggiori, 070 Shake con la sua personalità da veterana, con tutti gli spigoli caratteriali annessi. E, a notte inoltrata sul palco Amazon all’ingresso che ha assunto quasi la dimensione di un main stage, l’immancabile Charli XCX storica presenza nelle line up è ormai diventata una delle star del Primavera. Sempre lei a ora di pranzo aveva regalato ai fan un set unexpected sul lungomare di Barceloneta annunciato due ore prima sui social per presentare il suo nuovo album in uscita insieme al fedele collaboratore A.G. Cook (eroe della chiusura prima notte del Forum). Il risultato e la partecipazione ci ha fatto venire voglia di un Primavera che più spesso dà spazio a questi appuntamenti a sorpresa nel cuore della città, quest’anno forse meno coinvolta, con i suoi club e i suoi spazi, nella programmazione pre e post. Solo The National al Razzmatazz, e poi i soliti Apolo, Laut, La Nau e Parallel62 nel resto dei giorni e La 2 che nella giornata di martedì ha regalato un tris d’eccezione tra jazz, afrobeat e conscious rap: i The Messthetics di Joe Lally e Brendan Canty dei Fugazi (con il sassofonista James Brandow Lewis), gli Irreversible Entanglements e Armand Hammer, il duo dei due guru della East Coast Elucid e billy woods.
SZA, unico grande nome mainstream della scena black presente in cartellone, ha scolpito nella storia del festival il suo nome a caratteri cubitali come il suo nick, grazie a una di quelle memorabili performance ammalianti e curate a livelli di musical da festival che nel corso degli anni avevano regalato le varie Solange, Janelle Monáe e, perché no, la loro musa Erykah Badu. Senza i solidi Militarie Gun in apertura (che hanno bissato nel suggestivo stage chiuso delle recording session, il Red Sound Studio, con uno show unexpected) e il leggendario Legowelt, scelto per la tradizionale chiusura techno di qualità al palco Plenitude, un tempo palco Pitchfork, potrei dire forse per la prima volta in 15 anni di Primavera, di aver visto, con tutte le rinunce già segnalate, a una giornata di sole artiste donne.
Menzione d’onore, doverosa, per la sudcoreana DJ Fart In The Club che ha fatto tremare il devastante soundsystem della Warehouse X DICE con sonorità preziosamente UK e, last but not the least le Atarashii Gakko!, esplosivo quartetto di giovani artiste e performer giapponesi che rimescolano mezzo secolo di musica nipponica in un mix infernale di dance, electro e j-pop cui è impossibile resistere. Molti le hanno conosciute grazie a Rosalía che è comparsa in un loro tiktok. L’arena Cupra è completamente ubriacata dallo show di Mizyu, Rin, Suzuka, Kanon. Come solo durante lo spettacolo del mercoledì di apertura delle Stella Maris, progetto meme tra hard techno, latin, e christian pop legato alla serie tv spagnola Las Mesias (altro momento ad altissimo tasso di intrattenimento 3.0 tra processioni, risurrezioni, santi e grafiche freak dal peggio di Internet). Prodotte dal duo di dj Carlos Ballesteros e Genís Segarra hanno reso il ritornello Cristo, por ti existo una sorta di mantra.
Questo Primavera Sound 2024, in fin dei conti, è sempre più globale e sempre più orientale. Nelle giornate precedenti hanno colpito e affondato il pubblico gli psych-rocker sudcoreani Silica Gel o, per fare un altro nome di quelle parti, i Balming Tiger, altro collettivo molto scenografico di Seoul già attivo dal 2018 di k-pop alternativo e oscuro davvero difficile da definire per il suo eclettismo oscuro e dalle sonorità underground molto british alternate a momenti trap/drill e a tratti psichedelici, fresco di collaborazione con RM del fenomeno planetario BTS.
L’abbattimento dei confini geografici già negli ultimi anni aveva fatto abbracciare i fenomeni più innovativi della scena africana (in quest’edizione ha brillato su tutti sicuramente la stella ghanese-americana Amaarae) e della travolgente scena – in senso lato – latina. Anche nel 2004 tutte le chiusure, tra palchi elettronici e non, hanno nomi di quella scena, come nel venerdì da fuochi d’artificio con la label TraTraTrax e il triplo b2b con Verraco, Bitter Babe e Nick León, per non parlare della sfavillante Arca che come sempre non delude le aspettative e regala questa volta un live che meglio racchiude tutte le sue anime, da quella più avant a quella più magnetica e lirica, passando per il dancefloor più reggaeton. Una presenza scenica oggi con pochi uguali.
Non sfigura nemmeno Omar Apollo, astro nascente del pop americano figlio di immigrati messicani con la sua presenza scenica e le sue hit apprezzate dai più giovani nel pomeriggio di lunga attesa del rito finale del venerdì dedicato a Lana Del Rey, cui il conturbante Troye Sivan fa da intermezzo con il suo corpo da ballo in quello che molti definirebbero il momento più gen Z o forse più “coachella” del weekend insieme all’esclusivo e davvero ottimo live di uno dei nomi più influenti degli ultimi anni, come Jai Paul (uno degli act giustamente più attesi proprio perché prima della sua apparizione in California non era mai salito su un palco). Come quello di un altro inglese come Barry Can’t Swim, producer dance scozzese, che sembra infilarsi con merito sulla scia del mainstream di Fred, Again e affini. Momenti da Coachella catalano? Anche no. Sono momenti Primavera come lo sono quelli UK meno ammiccanti e leggeri, dal live molto suonato e wave targato Mount Kimbie al djset di Mica Levi con il suo dub ipnotico e spettrale, passando per la mattanza jungle di Tim Reaper, sempre in chiusura della notte alla Warehouse dedicata al ventennale della Hyperdub di Kode9 (che mette a dura prova i timpani di chi poco prima aveva apprezzato lì vicino lo show supersonico del misterioso collettivo collaborativo hardcore The Armed). Come sono da Primavera quei momenti da lectio magistralis dell’hip hop con Freddie Gibbs & Madlib per i dieci anni di Piñata, dei Clipse di Pusha T e No Malick, dell’inossidabile Roc Marciano che con i suoi beat dà non poco fastidio ai vicini Blonde Redhead. Lo stesso fastidio che in alcune zone dell’arena Cupra (letteralmente circondata da palchi tra Boiler Room e palchi all’ingresso) si avverte durante il soffuso e sofisticato live di Beth Gibbons che stranamente non si è esibita nell’Auditori e ha consolato con la sua inimitabile presenza chi da anni aspetta e confida nel ritorno sulle scene – e al Primavera – dei Portishead.
Non si può non parlare dei big visti nel weekend per scrivere una grande ovvietà, ovvero che i Vampire Weekend sono ancora una delle band migliori del pianeta, per classe, approccio e cura dei suoni, sempre inconfondibili, ma mai autoreferenziali o autocelebrativi. Da insegnare nelle scuole di musica. Nell’autocelebrazione non scadono nemmeno i Pulp che rispetto ad altre reunion, tornano dopo tredici anni da quella reunion del Primavera Sound con un live più curato, strutturato, emozionante, in un’autentica carrellata di hit che incanterebbero anche chi un po’ ingenerosamente li ha sempre incasellati nella troppa rigida etichetta di brit pop. Non ci scadono i Deftones che vanno sul palco con l’umiltà di una band che deve ancora dimostrare tutto e lascia secchi i presenti nel giro di pochi minuti.
Che dire invece di Lana Del Rey che non sia già stato detto? Nonostante l’inevitabile karaoke e le sue condizioni di salute non perfette, si ha davanti un’artista che oltre a scolpire nell’immaginario collettivo una serie di brani indimenticabili che fanno letteralmente commuovere un pubblico senza barriere di età o genere, continua a plasmare l’immaginario stesso con un’iconografia inconfondibile che spesso ci fa dire “molto Lana Del Rey” anche quando non si parla di musica o di canzoni.
Un po’ come dire “molto Primavera”.
Come da tradizione, sono state rese note le date per provare a proiettarsi con la mente all’edizione successiva che si terrà sempre a Barcelona nel format attuale, nella settimana del 5-7 giugno 2025.
Si può fantasticare sui nomi che probabilmente sono già stati bookati, ma certamente al Primavera Sound troverete ancora una volta l’ambiente ideale per un’esperienza sempre sorprendente e contemporanea dove non contano genere musicale, culture o paese d’origine e dove il presente può essere pop, può essere ricerca, ma anche il ritrovarsi davanti a vecchie glorie che hanno valore e importanza nei gusti di oggi e nell’eredità che hanno lasciato e lasceranno.
Il Primavera, oggi, è sempre più Primavera.