Piknik i Parken: a Oslo i Massive Attack in un festival che racconta un popolo e una band ancora in divenire

Sofienberg Park, Oslo, 13 Giugno 2024.

Ci sono molti modi di viaggiare: scoprire i monumenti storici, assaggiare i cibi locali (incredibile il numero di persone che ti chiedono cosa hai mangiato in Norvegia, a dimostrare quanto sia un elemento culturale per noi italiani) o partecipare ad una maratona, ad esempio, vivendo nel pieno le strade magari di una città come New York o Berlino.

Un’altro modo ancora è vivere una città (anche) nei suoi momenti culturali: specie quando sono piccoli, intimi e non dedicati ad un pubblico esterno (ad esempio il Primavera Sound è più una vetrina di racconto musicale, che un racconto di Barcellona). Perché quelle ore dentro ad un piccolo club o un festival ci consentono di osservare un modo di vivere la musica, la pioggia, il cibo, l’attesa in modo diverso da quelli che noi conosciamo. Sono frammenti di identità di popoli: forse non è un caso che non riusciamo, in Italia, ad avere un festival, eppure ne abbiamo tantissimi. Come non abbiamo un partito, ma almeno sette, come sappiamo trovare gioia in ritardi, confusioni, prezzi alti, parcheggi in malora, cemento rovente, impianti non all’altezza e ritardi cronici: eppure ci siamo sempre, sotto i palchi, raramente (e sempre meno) alla ricerca di novità, ma in massa nel rincorrere grandi eventi e nostalgie. Italiani, insomma.

Diversi, ecco dai norvegesi: in maniera assolutamente non casuale ci siamo trovati a fare la vacanza famigliare annuale nel centro della Norvegia (ma questa è un’altra storia, di vita personale) e ad essere nell’ultimo giorno nella capitale, Oslo, davanti al Sofienberg Park, uno tra i tanti parchi cittadini di una città non enorme ma che sembra respirare all’interno di foreste e mari, nuvole e sole, luci accecanti e oscurità. È come se fosse tutto saturo, come quelle foto sui telefoni che inseriscono colori artificiali che migliorano la realtà. Ma qui è vera.

E ci siamo, in questo parco, grazie ad un accredito (siamo forse la prima webzine italiana a raccontare questo festival, un pò fuori dai radar dei grandi circuiti europei) che ci consente di entrare per il primo giorno dei tre previsti, non casualmente quello dei Massive Attack, al rientro dal vivo dopo in sostanza cinque anni dall’ultimo tour, datato 2019 e la scomparsa del chitarrista Angelo Bruschini, lo scorso anno.

Ma abbiamo detto, prima di arrivare alla storica band di Bristol, che vivere una città (anche) attraverso un suo festival musicale è anche un modo di conoscere uno dei volti autentici della città.

E allora cos’è il Piknik I Parken? Un festival di medie dimensioni, che esiste da ormai alcuni anni (abbiamo trovato almeno le line up del 2017) e che combina artisti norvegesi ad alcune star internazionali, con un occhio di riguardo alla qualità: dagli Alt J a John Grant, dai Daughter a Benjamine Clementine, dai Phoenix ai New Order, il passato della manifestazione è la cartina tornasole di una programmazione attenta che sa trovare sempre nomi rilevanti.

Il tutto ambientato in bel parco verde all’interno quasi del centro cittadino (tanto che, clamorosamente, sul sito esiste un elenco delle vie i cui residenti, disturbati per questi tre giorni dall’evento, possono fare domanda di ingresso gratuito al festival) e che appare organizzato in maniera allo stesso tempo famigliare (anche nei contatti via mail) e professionale, nella parte tecnica e organizzativa.

Per un numero di persone che potrebbe stare in un intervallo tra le cinquemila e le diecimila, il numero di servizi è impressionante e fa perfettamente eco a quello che abbiamo trovato in Norvegia: dall’ingresso gratuito per i bambini accompagnati da un adulto alle orde di bagni chimici che consentono una fila-pipì di pochi secondi in qualunque momento, dal mercatino di abiti vintage ai chiostri con sidro, vino, birre, thè, caffè, birre, hamburgher, noodles, ravioli, birre, degustazioni di gin, paste dolci, birre.

Il tutto con prezzi fuori dalla dignità per le tasche italiane (le birre, 11 euro circa, un hamburgher e patatine poco oltre i venti, per dare un quadro) e una organizzazione millimetrica, che si estende ai due palchi che si alternano, di quasi uguali dimensioni, con tribunetta dedicata ai disabili, impianti perfettamente equilibrati a livello sonoro e questo flusso di persone che si alterna, in totale serenità, senza nessun violentocontattoumano per guadagnare 3-5 centimetri di vicinanza dal palco.

Packt like sardines cantavano i Radiohead, inscatolati come sardine, forse pensando a quei momenti italiani dove quando si arriva al nome principale della giornata inizia un imbottigliamento violento, uno stiparsi di sudore, insofferenza, adrenalina ormonale che si sgasa a intervalli rituali in attesa dell’evento, del messia, l’unico motivo per cui siamo lì, adoranti, insofferenti a qualunque altro suono sia quello del nomegrosso per cui abbiamo pagato decine di euro.

Invece qui no, si avvicinano i Massive Attack, la gente è davvero tanta (ma non una folla oceanica, è un parco, non una distesa di cemento di un chilometro quadrato) ma anche pochi minuti prima dell’inizio, accettando di magari essere un pò laterali, non è un problema pensare di avvicinarsi e stare tra le prime file. Le persone se ne stanno tranquille, sorridenti, quasi incuranti dei diluvi di pioggia che arrivano, nonostante sia il cielo (circa azzurro, venato di nuvole) e Google riferiscano che il cielo è sereno. Sarà anche sereno, ma piove. Molto. E questo non sconvolge nessuno, né quelli con gli impermeabili né quelli in maglietta e infradito, birra (undici o dodici euro, l’abbiamo detto, se ci si accontenta di quelle base) in mano, gocce sul viso, aria fresca tra le guance.

Ma un attimo: ci stiamo prendendo tutto il tempo per raccontare il festival, la giornata e quindi spezziamo un attimo il racconto, come fanno i registi bravi e voliamo indietro di qualche ora.

Chi suona oggi, parlando di musica? Il primo giorno, più degli altri è un giorno a trazione norvegese, probabilmente anche a causa dell’impegno economico richiesto per portare i nostri eroi di Bristol.

Però non è un male: ci perdiamo di poco Hannah Storm, giovane poco più che ventenne di Oslo (peccato, non ci era parsa male nella sua innocenza giovanile) ed entriamo nel parco nella parte finale del set di Frida Annevik.

Lei, invece è un nome già noto sul suolo norvegese, vincitrice di diversi premi dedicati al folk norvegese, ci colpisce subito per l’intensità vocale. Siamo, forse, in zona Daughter, per intendersi, in quelle esplosioni tra intimismo e crescendo elettrici. Una piccola discografia da riscoprire?

Abbiamo studiato e scopriamo che Frida viene da Ribadu, a pochissima distanza da Hamar, dove confina con il lago Mjøsa, il più esteso della Norvegia, un posto dove passeremo un paio di giorni dopo, un posto che se lo osservi da un treno, di sfuggita, ti regala una vista così.

Falla tu, una musica poco intensa, da queste parti, se puoi.

Ma torniamo a noi: un’altra cosa che non abbiamo ancora raccontato è che qui gli orari sono una cosa semplice, un’evidenza, una regolarità. Il programma indica l’artista sul palco alle 16:45? Alle 16:44 si presenta sul palco, un minuto dopo inizia a suonare. Succederà con tutti gli artisti, tranne i Massive Attack, previsti per le 20:40. Che alle 20:36 salgono sul palco. Capito, Italia?

Poco dopo, appunto, in perfetto orario, Anne Marie: attiva sin dagli anni ottanta, la ormai 67enne si porta dietro una lunga storia di identità e minoranza. Si, un punto di contatto con tutti i popoli del mondo: lei nata in un villaggio a metà tra Finlandia e Norvegia, di profonda identità Sami (una popolazione indigena dei paesi scandinavi) ha vissuto diversi momenti di ribellione e protesta nella sua lunga carriera e mette in scena una gioiosa celebrazione tra antico e moderno delle proprie origini. Convivono così, canti tradizionali e batteria intensa, strumenti moderni e altri sconosciuti: è un rito sciamanico, si avvicina a volte a quell’esperimento riuscitissimo e folle di Bat For Lashes con la sua Sexwitch. Particolare, sicuro.

Ci siamo, ci avviciniamo al gran finale, vediamo metà set di Ane Brun: altra cantautrice (a proposito di diversità, qui ci vediamo un festival con un programma nettamente a favore del mondo femminile e parecchi papà a tenere bambini e passeggini nella enorme biblioteca pubblica della città, altri mondi insomma) con diverse canzoni da milioni di streaming che se su disco appare sospesa spesso tra tra Kate Bush e qualche spruzzata di Bjork, dal vivo si atteggia più a popstar elettronica.

Intensa e carismatica, la lasciamo a metà per uno dei vari diluvi di cui sopra e ritorniamo una mezz’ora dopo per una delle sorprese della giornata: Metteson.

Giovane idolo norvegese, Metteson viene dal mondo del teatro e della danza e inizia a scrivere poi canzoni, partendo dall’assunto di “voler smettere di parlare delle canzoni di altri” e mette in scena un riuscitissimo show pop, totalmente queer, a metà tra canto e espressione fisica di ballo e libertà. Sono canzoni semplici, che riescono a mantenere una identità di un pop elettronico ben fatto e pieno di personalità (il nostro ha collaborato recentemente anche con la Munch Gallery durante un festival) che riesce a coinvolgere e sorprendere tutti a suon di sorrisi. Potremmo definirlo, per intendersi, un Perfume Genius totalmente libero dalle timidezze e intimità dei primi album, più vicino a quello odierno.

Infine: i Massive Attack. Chi sono oggi? A 14 anni dall’ultimo album vero e proprio (Heligoland) e con piccole estemporanee uscite negli anni successivi (il buon ep Ritual Spirit del 2016, l’estemporaneo ep Eutopia del 2020, legato più che altro ad un progetto visuale) la domanda non è da poco, eppure durante questo live, uno dei primissimi dopo la lunga pausa, l’idea è che ci siano ancora pagine da scrivere.

Intanto, almeno dal vivo, i Massive Attack sono tutti e sono tanti. Se la conduzione artistica è ovviamente di Robert 3d Del Naja sul palco è una parata di stelle: c’è Horace Andy con la sua inconfondibile voce, c’è Elizabeth Frazer, c’è Deborah Miller, ci sono gli Young Fathers. Ci sono i visual, da sempre una componente importante dal vivo e se alcune cose erano già state viste (i numeri, in particolari, su come vanno le cose nel mondo, spesso in termini di ingiustizie) altre, come sempre, sono contestualizzate sull’oggi: da alcune parti che ci sfuggono perché in norvegese ad altre che affondano il colpo sui devastanti risultati delle guerre di Ucraina e Israele. Anche la setlist (che non abbiamo in maniera perfetta, ma dovrebbe ricalcarsi su questa di pochi giorni prima in Danimarca) viaggia tra alcuni brani fondamentali del passato, alcune cover perfettamente inserite nel suono elettronico del gruppo (come Rockwork degli Ultravox) e un notevole cuore centrale in cui, complici gli Young Fathers sul palco, partendo dalla ottima Voodoo in My Blood scritta a quattro mani, si sentono due brani sconosciuti, aggressivi e pulsanti, che fanno immaginare i primi test di nuove canzoni in fase di uscita.

Da una parte, possiamo dirlo, è un concerto classico: un lento miglioramento costante della parte tecnica e una costruzione della scaletta che alterna momenti di respiro e altri più sincopati ed emotivi. Dall’altra è però vero che nelle cover, negli inediti e nelle soluzioni visive, sempre di grande qualità e attualità, rimane forte la sensazione che nonostante i sussulti e le perdite, ci sia ancora almeno qualche altro capitolo importante da scrivere per i Massive Attack.

E non è poco, per una band leggendaria che ha la possibilità di portarsi ancora in giro un cast enorme che vale da sola il prezzo del biglietto.

Poco dopo le ventidue, finisce tutto, in un clima di generale serenità, come tutte le cose in Norvegia.

Che sembrano funzionare, essere accessibili, facili, legate alla natura e connesse con la possibilità di godere del qui e ora. Esattamente come per i Massive Attack, in fondo, una volta pura avanguardia e ancora oggi contemporanei.