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“Sono passati 12 anni dall’ultima recensione che inviai a Kalporz. Un’eternità, considerando come
è mutato il panorama musicale. Paradosso di un mondo instabile, le sonorità degli ultimi anni sono
legate indissolubilmente alla stabilità di due generi: il rap in tutte le sue futili sfumature e il pop
becero. Siamo impregnati da contraddizioni: il ‘politically correct’ e la gara a chi le spara più
grosse, il cambiamento climatico e la corsa agli armamenti, un mondo underground di nicchia con
idee e album interessanti (ma assolutamente elitario e poco seguito) e i fenomeni rock da
baraccone come gli zombi viventi riesumati per i tour celebrativi dai prezzi folli o i Maneskin
(indissolubilmente legati alla moda e alla massa). 12 anni in cui sono rimasto assolutamente uno
snob nella scelta di cosa e di chi voglio ascoltare, in cui ho cercato di scovare e scavare ancora più
a fondo nelle viscere melmose e maleodoranti del rock, 12 anni per capire che lo scrivere e dare
peso ad un certo tipo di musica è rigenerante, terapeutico e stabilizzante.
Trap, afro-etno-jazz-rock, pop italiano ed electro pop… Se siete interessati a questo, ci sono
articoli e link per seguire tutta la ‘popò’ di generi elencati precedentemente”.
Avevo pensato a questa introduzione per presentarvi un discuccio devastante e chic uscito
qualche mese fa; invece, in questo esatto momento, sto facendo un copia incolla in Word per
utilizzare questo sproloquio personale per recensire l’ultimo disco degli Shellac.
Inevitabile quindi parlare di Steve Albini; o meglio, crogiolarmi per avere scritto queste prime righe
CTRL + C mediante un linguaggio tagliente e dissonante come il nostro recorder lo è stato per
tutta la vita con tutti gli strumenti da lui rimaneggiati (chitarra, microfono, parola, banco mixer).
In questa recensione sconclusionata, non aspettatevi un elenco di dischi epocali registrati dal
nostro Re Mida, potrete trovare online almeno 10 classifiche redatte da testate diverse ma sempre
con gli stessi album (anche se qualcuno si è distinto e mi ha concesso più di un’emozione citando
“Do Dallas”).
Gli Shellac hanno masticato e digerito un suono scarno, assolutamente disarmonico e al contempo
quadrato, imballabile, di impatto. Big Black e Rapemen come base di partenza, il trio ha poi
frequentato l’università del noise, conseguendo successivamente un master in math-rock.
Collego l’iphone all’auto come da buon millenials fuori tempo massimo, alzo il volume e sento
quella chitarra e quei suoni ambientali incredibili.
“Sono loro, non sono cambiati!”. Mi entusiasmo come un bambino, come se fossero formule
standard di felicità a là Ramones o Ac/dc (gli australiani per il bum bum bum sferrato da Todd
Trainer, non chiedetemi altro sul parallelismo).
“Ahahahah!”. Rido.
Sono assuefatto da questi suoni, come se fossero ormai scontati e codificati. Tutto questo è
“Wsod”, durata 2:24 di cui un minuto e passa di musica, 40 secondi di sproloqui e una bordata
ultrapunk in chiusura con un suono di chitarra pazzesco. “All the trains” potrebbe terminare qui e
sarebbe già un singolo clamoroso.
Se non lo avessimo udito attentamente durante il primo pezzo, Bob Weston ci ricorda che il suono
del suo basso è urticante e riempie egregiamente gli spazi da 30 anni a questa parte, ripassando il
concetto dall’intro di “Girl from outside” fino all’ultimo secondo dei 28 minuti di questa opera.
L’innesto prettamente punk a discapito del minutaggio permette di assaporare al meglio la bordata
elettrica attesa da 10 anni, trait d’union perfettamente riuscito tra “At action park” e “1000 Hurts”.
E’ un viaggio di dieci tappe con fermate molto brevi all’interno di un vagone rumoroso, il treno è
guidato da un macchinista che urla le fermate. E la destinazione? L’inferno, come ci ricordano
nell’ultimo pezzo i nostri tre eroi. “Perché se esiste l’Inferno, conoscerò tutti” (“I don’t fear Hell”). RIP Steve.
76/100
(Matteo Ghilardi)