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Turnstile, Magnolia, Milano, 19 giugno 2024
Il pogo salverà il mondo. Probabilmente non sarà così ma mi piacerebbe sperarlo, perché l’energia di quel rito praticamente druidico che si tramanda da generazione in generazione è una delle massime espressioni della nostra vitalità, del nostro essere vivi. E il pogo che scatenano i Turnstile è il più salutare di tutti nel decennio che ci occupa. Questo a mio modesto avviso, naturalmente. Ma c’è una ragione concreta: era il settembre 2021 e noi tutti eravamo alle prese con il distanziamento sociale, in estate sì qualche live aveva fatto timido ritorno ma c’erano le sedie e i numeri bassi e insomma la paura del contagio era ancora molto presente. Ecco che arriva dagli States un video di “Holiday” dal vivo che mi fece sognare: si vedevano ragazzi tutti ammassati, sudati, strisciarsi gli uni contro gli altri, fare stage diving, senza mascherine, di nuovo tutti insieme. Vivi, e a dimostrare di esserlo. Per me fu una folgorazione: allora è vero che si può uscirne, allora forse torneremo così, a sfregare i nostri corpi grondanti di sudore nei concerti. Il mondo forse si salverà. Fu la scintilla di una speranza enorme, la consapevolezza che potevamo farcela: ed eccoci qui, a distanza di tre anni, a dimostrarlo con quel rito iniziatico che è il “pogo a un live dei Turnstile”. È vero, c’è stato anche Vicenza (Romano d’Ezzelino per i più precisi) l’anno scorso, ma lì i Turnstile erano in un festival e non avevano solo il loro pubblico. Invece ieri sera al Magnolia erano tutti lì per loro, a dimostrare l’attaccamento a questa band dal sapore antico e nuovo allo stesso tempo.
Antico: lasciando stare l’etichetta di band post-hardcore, di fatto i Turnstile si rifanno alla tradizione del crossover, Rage Against The Machine e compagnia bella. Tanto che sempre nel 2021, alle presentazioni del mio libro del 1991 facevo vedere proprio il video del live di Turnstile per autosmentirmi siccome nel libro avevo scritto che il crossover era un genere (fantastico) invecchiato male e che non aveva lasciato seguaci ed epigoni, lo facevo vedere per dimostrare come è tutto in evoluzione senza certezze, con la speranza malcelata che fosse in arrivo un’armata di band post-hardcore come i Turnstile che rinverdissero i fasti del passato. Ma oramai possiamo dirlo, non è successo. I Turnstile sono una piccola e bellissima eccezione, ma nel 2024 il pop continua a farla da padrone. Altro rito primitivo che si è materializzato ieri sera: vedere un assolo di batteria come se fossimo davanti a Ian Paice dei Deep Purple fa ancora la sua porca figura, Daniel Fang è un mostro di bravura e l’ha dimostrato.
Ma non c’è solo revival, la band di Baltimora è per molti versi nuova e diversa: melodia marcata, praticamente pop (e il cerchio di chiude) nell’ultimo album “Glow On”, e timing serrati, due minuti e via con album che sono coerenti con una soglia di attenzione passata, negli ultimi 30 anni, dalle 2 ore di un film a un’ora di una puntata di una serie tv. E quindi i Turnstile fanno album tra i 25 e i 35 minuti e concerti che arrivano, appunto, all’ora senza sforare oltre. Anche ieri sera, inizio alle 21:45 puntuali sulla scaletta e fine che non erano ancora le 23. Perfetto.
Questa dicotomia tra nuovo e vecchio era evidente anche nel pubblico, tra magliette di Beavis and Butt-Head e dei Mastodon, tra ragazzi con i bragoncini corti cargo che usava Mike Patton nel 1989 e canottiere per far vedere i tatuaggi colorati sulle braccia. Senza considerare che, man mano che il live avanzava, il look più utilizzato era quello old classico: torso nudo, a pogare e a dimenarsi con così tanta foga veniva naturale.
Si è parlato poco della scaletta? Bah, è sotto (l’ho fotografata da una tizia all’uscita che era riuscita a portarsi a casa il cimelio) ed è molto bella e concentrata, le canzoni sono state suonate con vera convinzione e amore per il pubblico. E passione. “Blackout” probabilmente è stata la più distruttiva, ma io amo alla follia “Fly Again” e la chiusura di “Holiday” è stato qualcosa di metafisico. Lì, dopo che tutta l’audience si era ritrovata a essere sballottata da una parte all’altra, a saltare come ossessi, ad aprirsi in varchi in cui partivano poghi circolari, a emanare odori antichi, si rimaterializzava quella stanchezza atavica da fine concerto quando sei davvero spompo e contento perché hai appena pogato su “Killing In The Name” o robe del genere (nel 2008 a Modena i RATM finirono con quella canzone, e credo che avrebbero potuto esserci state fratture agli arti dalla tanta enormità di energia di quel finale, e devo ammettere che la chiusa di “Holiday” non è stata molto sotto).
E allora, alla luce di quella speranza in epoca covid che si è realizzata, ridecliniamola quella frase iniziale “Il pogo salverà il mondo”: no, è il pogo che scatenano i Turnstile che HA SALVATO il mondo.
P.S. I DITZ in apertura sono stati convincenti, peccato per la voce che non si sentisse, da quando il cantante Cal Francis se n’era andato in giro per il pubblico a metà concerto. È stato un buon accoppiamento con i Turnstile.
(Paolo Bardelli)