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Quest’anno il festival Odysseus ha trovato un nuovo santuario. Abbandonata l’isola di Lonna, via i paesaggi sereni e i venti salmastri, ecco Korjaamo Culture Factory. Le previsioni del tempo? Cupe. Nuvole minacciose, vento che fischia tra i vicoli, una tempesta in arrivo.
Ho più di trent’anni, una quindicina di anni di concerti, festival, location diverse. Ho persino provato a lavorare nel settore. Ora vedo tutto con occhi diversi. Ho nostalgia della meraviglia. Capisco chi sente la mancanza di Lonna: serate estive perfette, sole che si tuffa nel mare, suono delle onde mescolato alla musica. Perfetto per Instagram. Però, Korjaamo è un vantaggio logistico. Con questo meteo, Lonna sarebbe un disastro. Siamo nei pragmatici Paesi Nordici, dopotutto.
Non sottovalutare la nuova location: Korjaamo, con i suoi muri di mattoni rossi e travi di ferro, racconta storie di un passato industriale e grezzo. Ogni angolo una sorpresa. Un labirinto architettonico. “Vanno in luoghi nascosti tra la terra e il cielo”, canterà più tardi Kamilya Jubran. Non so perché, ma mi sembra perfetto per l’atmosfera surreale di qui.
Attorno a me, gente già ambientata. L’atmosfera è quella dei fan del jazz e dell’elettronica più cervellotica. Spizzo i vinili, ascolto conversazioni su artisti brasiliani appena scoperti. All’ingresso, dubito ci abbiano fatto controlli di sicurezza. Niente transenne ai palchi. Pubblico dei sogni. O forse pubblico vecchio, chi può dirlo.
I primi tuoni rombano, il cielo si oscura, le nubi cariche di pioggia non allontanano i visitatori. Li attraggono, come marinai verso il canto delle sirene. Metafora scontata per un festival con questo nome? Siamo un pubblico vecchio, l’ho detto.
Inizio il festival con gli Stance Brothers, il progetto visionario di Teppo Mäkynen. Jazz contemporaneo, attitudine hip-hop irriverente. Il loro suono richiama le vibrazioni di Madlib e Flying Lotus, un’eco distante ma inconfondibile. Teppo è un mixtape vivente, un organismo pulsante, guida la cerimonia sonora come un enigmatico sciamano sorridente. Non riesco a trovare una definizione migliore.
Dall’esuberanza degli Stance Brothers, mi ritrovo in un ambiente più intimo. “Nessuno è al sicuro dal dolore, una pietra piange sulla terra,” recita Kamilya Jubran. È lei, solitaria con il suo oud, un canto di nostalgia e dislocamento. Le sue canzoni sono enigmi, avvolte nel mistero dell’arabo, una lingua che non comprendo ma che risuona come un incantesimo. Alcuni testi sono suoi, altri di poeti come Paul Chaoul.
Parlano di spostamenti e memoria, echi di un passato che non vuole essere dimenticato. Non posso pretendere di decifrare tutto. L’immaginario è volutamente astratto, un mosaico di simboli e metafore. Ma il contesto di Jubran – palestinese, che ha iniziato con il gruppo sperimentale Sabreen a Gerusalemme e poi ha lasciato Israele per l’Europa – impregna ogni nota, ogni sussurro.
L’atmosfera cambia. Non più una folla elettrica, ma un silenzio sospeso, quasi mistico. Ogni nota dell’oud è un filo sottile che si tesse nell’aria, ogni parola in arabo un segreto che non posso comprendere ma che sento profondamente. La sua musica è un portale verso un altrove, un mondo parallelo di memorie frantumate.
A questo punto mi inerpico per una piccola scalinata e raggiungo una sala chiamata “Vintti”, che in finlandese credo significhi soffitta, mansarda. Ha una vetrata colorata che raffigura una cartina di Helsinki. Victor Herrero, con la sua chitarra, si siede. Tra una canzone e l’altra, scherza con il pubblico, abbattendo le barriere invisibili tra palco e platea.
È come se stessimo tutti nel suo salotto. Noi, la musica e le storie. Forse tutto resta un po’ piatto, ma è il mio problema con i set di sola chitarra acustica, non un difetto della performance in sé.
Mi avvio verso il set di KMRU. Spizzo ancora i testi di Kamilya Jubran, tradotti sul sito del festival. “Dove la solitudine con i suoi fari abbandonati getta la sua ombra sulle carovane che camminano verso i loro labirinti,” recita un verso di “Qawafel”. Perfetto preludio.
KMRU, il prolifico musicista elettronico keniano trapiantato a Berlino, trasforma l’ambiente con le sue esplorazioni sonore lunghe e immersive. L’oscurità avvolge la sala, spezzata solo da luci soffuse.
Melodie lente e ipnotiche si intrecciano con rumori metallici e droni profondi, costruendo una tensione sottile e costante.
Tanta gente si siede per terra durante il live. Lo faccio anche io. Il buio è totale, l’immersione completa. Ogni eco rimbomba nelle pareti, rimbalzando come un richiamo lontano che non può essere ignorato. L’intero ambiente vibra con una strana energia, un misto di inquietudine e fascino. Le note sembrano staccarsi e fluttuare, sospese, come spettatori invisibili. Seduto sul pavimento, mi sento parte di un rituale collettivo, immerso in un’oscurità che svela più di quanto nasconda.
Il festival Odysseus si chiude con Ghosted: il progetto di Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin. Un equilibrio precario tra coesione e disintegrazione. I toni della chitarra di Ambarchi si deformano, si trasformano, con strati di complessità e profondità. Il basso di Berthling, come un’ancora, mantiene un impulso costante. La batteria di Werliin esplora intervalli e superfici variabili.
Nessun percorso lineare: i suoni si muovono lateralmente, si espandono, si contraggono. Una trama sonora che danza intorno a un nucleo centrale. Musica ripetitiva, mai ripetuta: ogni iterazione è un nuovo colore. Tutto sembra sospeso, congelato in un momento di pura magia.
Il festival Odysseus è un esempio di successo di un concetto: l’arte non deve sempre piegarsi alle mode del momento. Invita gli spettatori a fidarsi di una visione curatoriale. Lo spettatore deve fidarsi del creativo e il creativo dello spettatore, evitando soluzioni preconfezionate.
Attraverso la musica si può fare intrattenimento e al contempo creare una comunità (temporanea?) che condivide non solo lo spazio fisico, ma anche quello emotivo e intellettuale.
Io ringrazio, applaudo e torno a casa. La faccio una metafora su Itaca?