7 brani per scoprire Duke Ellington

Nonostante questa scalcagnata rubrica sia nata con l’intento opposto, ci sono occasioni in cui non ci si può esimere dal richiamo al passato; e credo che il 125esimo anniversario della nascita di Duke Ellington sia uno di questi. (A ben calcolare, sarebbe anche il cinquantesimo anniversario della sua morte ma, non so voi, io le morti non le festeggio. Per quanto amerei avere un funerale in stile New Orleans). Edward Kennedy Ellington, detto “Duke” – soprannome datogli da un amico e devo dire che gli stava bene come un vestito di sartoria -, nato a Washington nel 1899 e vissuto in condizioni tutto sommato discrete, è stato il più grande compositore del jazz. E di gran lunga.

Duke Ellington (1899-1974)

Questo non solo per la quantità di brani divenuti standard, ma anche perché ha introdotto nel jazz dei colori, suoni e profumi inauditi. Con lui, Ellington, che pensava ad ogni singola voce strumentale di quella dozzina di grandi strumentisti a sua disposizione – solo per citarne alcuni: Johnny Hodges, Ben Webster, Paul Gonsalves, Harry Carney, Cootie Williams, Ray Nance, Jimmy Blaton, Louis Bellson… –   e ne modellava il suono come fosse pongo. Nessuna orchestra suonava e suonerà come la sua.

Prima e ultima cosa: l’uomo di cui andrete a leggere è più grande di queste righe. 

  • It Don’t Mean A Thing (If It Ain’t Got That Swing) (da “Ellington in Order, vol. 4”, 1932)

Poco meno di tre minuti per racchiudere i ruggenti anni ’20 di cui scrisse Fitzgerald, con quella voglia di vivere per illudersi di dimenticare. Il ritmo implacabile, le stilettate di fiati, la voce briosa, il tutto al servizio di una melodia memorabile. Un manifesto che ha fatto epoca.

  • Azure (Da “Ellington In Order, vol.7”, 1936-1947)

Ellington stesso descrisse cosi questo brano: “A little dulcet piece which portrays a blue mood”. Potrebbe sembrare una descrizione povera per una composizione cosi raffinata, però più la leggo, più mi rendo conto che non c’è tanto altro da aggiungere. [ps. Se volete recuperare le registrazioni di Ellington pre 1940, consiglio l’ascolto della raccolta, per ora in 8 volumi e in formato digitiale, di “Ellington In Order”, un’atto d’amore filologico]

  • Chelsea Bridge (da “Never No Lament – The Blanton-Webster Band”, 1940-1942)

Dal punto di vista strettamente musicale, credo che l’orchestra che Ellington diresse dal            1940 al 1942 fu la migliore della sua vita. Una sezione fiati assoluta, il cui fiore all’occhiello era il tenore di Ben

Billy Strayhorn (1915-1967)

Webster, titolare di uno dei più bei suoni di sax di sempre; un contrabbassista innovativo come Jimmy Blanton e soprattutto l’arrivo dell’ingegnoso orchestratore Billy Strayhorn. “Chelsea Bridge” porta la sua firma, ed è un susseguirsi di microcosmi che si incrociano naturalmente. In tre minuti si passa da timbri debussyniani a suggestioni swing, su un tema che rimane sospeso a mezz’aria, mentre la partitura si srotola come il fiocco del pacchetto della vostra pasticceria preferita. Imperdibile, come tutto quello che ha registrato questa formazione [ps. Consiglio l’ascolto del box in tre dischi “Never No Lament”, RCA, 2003].

  • Mood Indigo (Da “Ellington In Order, Vol 3, 1930-1931” e “Masterpieces By Ellington”, 1950)

Un classico del jazz, che inserisco qui non solo per la sua bellezza, ma per fare un raffronto: è il primo brano di uno dei primissimi dischi stampati nel formato LP, una liberazione che ha permesso registrazioni oltre i tre minuti dei vecchi 78 giri. L’orchestra qui esplora il nastro, sobbollendo tra temi, soli e improvvisi cambi di tonalità. Il tutto sapendo di avere, finalmente, tempo. E per quanto ritenga Ellington formidabile

L’orchestra

nel racchiudere di tutto anche in tre minuti, vale certamente la pena anche seguire questa sua prima traversata nel mare aperto del long playing. Raffrontatela con la versione originale di qualche anno prima e decidete voi quella che amate di più.

  • Such Sweet Thunder (da “Such Sweet Thunder”, 1957)

Basterebbe il cambio che arriva come una folata di vento a 1.00 del pezzo per dire bene di questo lavoro. Invece c’è anche tutto il resto: lo swing inimitabile e la glassa sonora delle ance, cremosa e tagliente come solo Ellington e Strayhorn sapevano scrivere, e i loro musicisti eseguire. Suite composta per la rassegna shakespiriana di Stratford, in Canada, unisce la musica americana a episodi delle opere del bardo inglese. Un’unione che sinceramente io non credevo possibile, ma sono contento che Ellington e Strayhorn l’abbiano trovata, se il risultato è questo.

  • Sunset And The Mocking Bird (“The Queen Suite”, 1959)

Un’apertura quasi scherzosa e poi il dipanarsi della scena dai colori pastello, con swing e clarinetto dai

Ellington e la Regina Elisabetta

timbri misuratamente regali: niente male per essere il primo movimento di una suite dedicata alla Regina Elisabetta II come personale regalo del Duca al Sua Maestà, inizialmente stampato e inviato in unica copia a Buckingham Palace a spese di Ellington stesso. D’altro canto, tra aristocratici ci si intende.

  • Thanks For The Beautiful Land On The Delta (da “New Orleans Suite”, 1970)

Quarta parte della “New Orleans Suite” commissionata dal New Orleans Jazz Festival del 1970.  Ellington paga il tributo alla città madre del jazz con una composizione dalle forti tinte creole, dove deflagrazioni squillanti si mischiano a lascività varie, unite in una atmosfera nostalgica di tempi andati. E’ un brano spigliato e rauco ma dalla solita perizia armonica che, come da titolo, rimanda ai cieli foschi e zanzarosi della città della Louisiana, prima di cedere il passo ai bollori della sua incontenibile vita notturna, giù a Storyville.  

Chiudo come Duke, nel suo classico stile tra coolness, ruffianeria e senso dello spettacolo, chiudeva ogni concerto: “I love you madly!”

Bignami ellingtoniano.