Share This Article
“Grace” di Jeff Buckley compie 30 anni il 15 agosto [1]. Invece di stilare un’analisi compiuta di quell’album, che abbiamo già fatto canzone per canzone per il 20ennale, questo giro ci siamo chiesti cosa rimane – oggi – del lascito artistico di Jeff Buckley. Questi sono i contributi di Paolo Bardelli, Samuele Conficoni e Raffaele Concollato al quesito.
Affrontiamo subito il lascito che fa più incazzare: che Jeff Buckley sia transumato nell’immaginario collettivo dei talent perché almeno uno su tre si approccia alla sua versione di “Hallelujah”, quindi arrivi fino a noi per una canzone nemmeno scritta da lui, è veramente un crimine. Ma, si sa, dei talent non dobbiamo crucciarci e nemmeno dobbiamo considerarli, per cui andiamo a focalizzare la risposta su ambiti ben più importanti. Tipo se ci sono artisti odierni che possono forgiarsi della sua eredità, e se la sua memoria ed importanza siano ben compresi oggigiorno. Il fatto che ci siano pochi artisti che dimostrino un talento comparabile a Jeff dimostra la sua unicità: tra i tanti verrebbe in mente solo quella mina vagante che è Tamino, ma piacerebbe identificare qualcuno che abbia lo stesso fuoco di passione per musica e non qualcuno che sia similare a livello artistico. Circa invece la sua importanza odierna si sa che la musica non può essere ricomposta e valutata solo con i numeri, ma qualche volta possono aiutare: questo mese su Spotify Buckley ha totalizzato 3,9 milioni di ascoltatori, contro ad esempio i 5,5 milioni di Lou Reed. Se vogliamo considerare che Reed ha prodotto molto di più, verrebbe da dire che su Jeff Buckley ci sia in effetti ancora molta attenzione, e i numeri dello streaming dovrebbero rappresentare di più le nuove generazioni rispetto alle vecchie (che hanno la possibilità di ascolti fisici). Si ha quindi difficoltà a rispondere alla domanda che ci siamo fatti, se Jeff Buckley sia ancora o meno influente, in quanto ci sono elementi contrastanti. C’è però una certezza: bisogna smettere di guardare alle nuove uscite che continueranno di qui a sempre di materiale tirato fuori dai cassetti, perché l’eredità di Jeff Buckley è chiara con i soli “Grace” e “Sketches…”, oltre – se proprio si vuole – ai primi live ufficiali (“Live at Sin-é”, “Mystery White Boy”, “Live A L’Olympia”) e alle outtakes “Songs To No One” con Gary Lucas. L’anno scorso è uscito “Gods And Monsters” che è indecente come qualità sonora, sarebbe da denuncia immediata.
Personalmente, per sentirmelo vicino, ho attuato da tempo una tattica: quella di seguire una pagina Instagram che pubblica solo foto di Jeff Buckley (tra le tante segnalo questa) il che crea un effetto straniante: da una parte, di primo acchito, Jeff potrebbe sembrare sempre presente, ma è una sensazione fugace, che scompare subito per lasciare il posto alla consapevolezza della malinconia di non averlo più con noi. Noi che aspettiamo tutti i giorni un altro artista come lui (e come Kurt Cobain) con la stessa voglia di riscatto, di emozione, di bellezza, di rabbia, di esprimersi, di unire, di raccontare, di comunicare, di renderci migliori ricevendo le sue note. Quella è la sua eredità.
(Paolo Bardelli)
La grandezza e la rilevanza di Jeff Buckley, come quella dei tanti artisti che ci hanno lasciati troppo presto, sta non solo in quello che ha scritto, detto e pubblicato, ma anche in ciò che avrebbe potuto scrivere, dire e pubblicare se non fosse scomparso. “Grace” è un disco rock tradizionale e al tempo stesso seminale e innovativo, ed è forse questa la sua più straordinaria qualità e il suo più sorprendente pregio, che lo rendono una pietra miliare anche trent’anni dopo la sua pubblicazione. Senza scompigliare le pagine e la storia del romanzo del rock statunitense che nel frattempo continuava a essere scritto, aggiustato e annotato, Jeff Buckley ha saputo darvi il suo contributo e far suo quel genere svuotandolo e rendendolo un primitivo involucro da riempire; per poter arrivare a “Grace” lo ha immerso in una tradizione musicale nobile e raffinata il cui fil rouge sapeva far convivere la chanson jazzy di Nina Simone, l’acid rock dei Led Zeppelin, il cantautorato poetico e visionario di Bob Dylan e di Leonard Cohen e addirittura la musica classica. Laddove avrebbe potuto generarsi un caos cacofonico e impossibile da governare è germogliata, invece, una grazia che pareva impossibile da modellare a partire da quegli ingredienti, ma che alla fine è riuscita.
È proprio questo suo gigantesco merito, che ha saputo influenzare artisti del calibro di Radiohead, Lana del Rey, Adele, Mitski e Phoebe Bridgers, solo per citare alcuni nomi, e che lo ha fatto riconoscere come big della musica da mostri sacri come Bob Dylan stesso, David Bowie e Morrissey, che rende il suo primo e unico disco in studio una stanza le cui porte si piegano su se stesse e riportano sempre a quel medesimo luogo: le rivoluzioni che sono partite da lì saranno colte e a tutti gli effetti scritte da altri, altri che quella stanza l’hanno visitata, vissuta e studiata profondamente. Dove sono andati gli altri già lo sappiamo e, per quanto riguarda il futuro, lo sapremo. Dove sarebbe andato lui, invece, non potremo mai saperlo, anche se le incisioni mai del tutto concluse per quello che sarebbe stato il suo secondo disco in studio ci danno alcuni indizi. Purtroppo per noi, però, quello è un binario morto, e qui ritorniamo all’incipit del nostro discorso: è come se da “Grace” fuoriuscissero due sentieri, uno che abbiamo tastato – e che ancora, dopo trent’anni, tastiamo – con mano, e uno che mai conosceremo e che forse, in un universo parallelo, si sta ancora compiendo. Ma “this is not for our eyes”.
(Samuele Conficoni)
Nonostante la sua breve carriera l’influenza di Jeff Buckley sulla musica degli ultimi decenni è profonda. Il genere poco classificabile che ha creato, un mix di folk, rock, blues e world music, ha lasciato un segno indelebile in diversi artisti. Il suo enorme talento nell’uso della voce, capace di trasmettere quella delicata vulnerabilità che ha ispirato una generazione di cantanti e che li ha spinti ad esplorare le loro capacità vocali in un modo non convenzionale, è la riprova che non è stato solo ‘uno dei tanti’.
Basti pensare alla cover di “Hallelujah” di Leonard Cohen, diventata iconica al punto da risultare un punto di riferimento per le reinterpretazioni successive. La sua espressività ha portato ad un ritorno all’autenticità e all’onestà emotiva che hanno lasciato il segno in Thom Yorke, che ha spesso lo ha citato come una delle principali influenze, sia per lo stile vocale che per averlo spinto a pensare fuori dai soliti schemi. Anche Damien Rice, di cui ha preso lo stile diretto e intimo, ne porta l’eredità. Certo Damien poi ha completato il “capolavoro” con dei testi poetici, ma le affinità allo stile di Jeff sono evidenti. Altro artista ispirato da Buckley è stato Justin Vernon (Bon Iver), dove l’introspezione e la scrittura delle canzoni non lasciano dubbi.
Dal punto di vista strettamente musicale Buckley lo ritroviamo nella band britannica degli Alt-J che con i loro suono sperimentale ed eclettico riecheggiano quella fusione di generi diversi di cui si parlava più sopra. Infine non si possono non citare i Daughter, con la voce delicata e disperata di Elena Tonra e le melodie ossessionanti del gruppo, dove lo spirito di Buckley riecheggia quasi in ogni brano.
Altri, magari anche in modo indiretto o laterale, hanno raccolto l’eredità di Jeff Buckley, assicurandogli un’eredità artistica che lo mette tra le figure più influenti della musica moderna.
(Raffaele Concollato)
[1] “Grace” è uscito il 15 agosto 1994 in Gran Bretagna ed Europa, ed il 23 agosto 1994 negli Stati Uniti.