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Il Flow è il mio festival preferito: Helsinki, la location, la selezione musicale. Ne ho scritto molto, non serve ripetermi. Elogiarlo è semplice, meno lo è riflettere sulle dinamiche che lo avvolgono. L’acquisizione da parte di KKR getta un’ombra sui suoi valori, specialmente per via degli investimenti in Israele. E qui si apre un’occasione: dimostrare una leadership vera, allineare azioni e parole. Ma non è semplice. Non è corretto caricare tutta la responsabilità sugli artisti. Ammirevole chi si espone sulla Palestina, ma non è per tutti. Al Flow, chi voleva, l’ha fatto, senza censura. È abbastanza? Forse no, ma è un inizio.
Sul programma, invece, il Flow non tradisce. Nonostante la cancellazione degli Smile, lo staff salva la situazione con un colpo da maestro: James Blake. Ma ci arrivo tra un po’. Il festival parte con un back-to-back di sapore pakistano, perfetto per celebrare l’oro fresco di Arshad Nadeem. Nabihah Iqbal sfoggia una maglietta dei Rage Against the Machine, ma l’atmosfera è tutta shoegaze e dream-pop, con una cover di “A Forest” dei Cure. Le note si distendono e si contorcono come fumo nell’aria. Non è un live che mi sconvolgerà l’esistenza, ma in cui mi ritrovo.
Arooj Aftab, invece, non sembra gradire il Balloon 360° né il sole eterno di Helsinki. Si autodefinisce una creatura notturna, e sul vino in Finlandia siamo d’accordo: non sempre brilla. Il suo set, da “Night Reign”, è un’onda di suoni crepuscolari e spirituali, con una voce che scivola tra microtonalità e jazz. Forse rivedibile una battuta su Billie Eilish e Charli XCX, o forse non l’ho afferrata. Intanto, in contemporanea, scorrono le note di Blonde Redhead e Vince Staples, già visti in altre vite. E perdo Kokoko! per una fila infinita, anche loro vecchi conoscenti di un festival a Pescara.
Halsey chiude sul Main Stage, ma mi confesso disinteressato. Dai feedback sembra che non mi sia perso granché.
Non mi perdo Janelle Monáe. E non dovremmo mai farlo. È un collage vivente di omaggi: un po’ Prince, un po’ Michael Jackson, ma sempre Monáe. Con “Django Jane” esplode in un’atmosfera anni ’60, occhiali da sole e basco da icona ribelle, come un sogno febbrile vintage. Siamo tutti on our Champagne Shit.
Realizzo che sto scivolando nel solito play-by-play. Ha ancora senso nel 2024? Mandiamo al diavolo l’ordine cronologico e cerchiamo un filo conduttore più profondo, mischiando un po’ il resto dei tre giorni.
Voglio assolutamente citare i 47Soul, i migliore ed i più adatti a riportare la questione palestinese sul palco. Shamstep, lo chiamano: un mix ipnotico di elettronica e Dabke. Bilad al-Sham abbraccia Palestina, Giordania, Siria e Libano. Ho letto recentemente un pezzo di Sarah Aziza dove diceva che “la Palestina è ovunque,” e in questo live, per qualche motivo, lo senti davvero.
Unico live che pareggia l’energia è probabilmente quello degli Overmono. Campionamenti catchy e synth che esplodono come caramelle acide. Il tutto portato sul palco con una naturalezza incredibile, trasformando un underground metallico che ricorderebbe Burial, in un momento pop da classifica. Che pezzo pazzesco è “Good Lies”, diciamolo.
A questo punto, vorrei parlare dei tre live che aspettavo di più, quelli che per gusto personale e per la mia storia musicale dicono qualcosa anche di me. Yves Tumor era uno di questi. Ho divorato i suoi album, convinto che sia il volto più brillante di questa rinascita post-punk/new wave (a proposito, ad un certo punto c’erano anche gli Idles al Flow). Dal vivo, sul palco, c’è tutto: carisma, una presenza fisica magnetica, sensualità quasi sfacciata. Ma c’è un ma. Troppi suoni registrati, troppe voci sovrapposte, e qualcosa si perde per strada. Mi scuote, sì, ma non mi travolge. Esco con quella strana sensazione di non aver colto del tutto il momento. Forse sono io, forse è lui. O forse è solo così che doveva essere.
Non c’è tempo per pensarci troppo, che subito mi ritrovo davanti a PJ Harvey. La prima volta. Vedo facce intorno a me che sperano nei classici, nelle canzoni che l’hanno resa un’icona, ma con PJ non funziona così. Mischia pezzi nuovi e vecchi senza mai scadere nella nostalgia, senza cercare di rivivere i giorni di gloria come fanno in tanti. È una lezione di evoluzione, pura e semplice. Peccato solo che il ritmo serrato dei festival non mi dia nemmeno il tempo di entrare davvero nel mood. Ci sarà una seconda volta. Vero?
Non ho tempo per rifletterci troppo, che mi trovo già davanti a PJ Harvey. La prima volta, e lo sento nelle gambe e nelle spalle. Intorno a me, facce che aspettano i classici, le canzoni che l’hanno resa un’icona, ma con PJ non si gioca facile. Mischia vecchio e nuovo senza mai cedere alla nostalgia, senza ricalcare i giorni di gloria. Una lezione continua di evoluzione. Solo il ritmo incalzante dei festival non mi lascia entrare davvero nel suo mondo. Ci sarà una seconda occasione. Vero?
Chi invece fa un set tralasciando davvero parecchia della roba nuova è James Blake. L’ho detto che ci ritornavamo a James Blake.
Non lo vedevo live da praticamente un decennio. Per tanto tempo ha rappresentato un po’ il punto di incontro di tutti i miei gusti musicali. Mi son piaciuti anche tanti dei suoi ultimi lavori, ma resto convinto che i suoi capolavori (ormai classici) siano quelli dei primi dischi (oddio che frase snob). Fatto sta, che non so per quale motivo, abbasso le difese. Vado al live quasi senza troppe aspettative. Ed invece ne esco devastato. Ogni canzone, suono, dettaglio al punto giusto. Una cover dei Radiohead che mi trafigge. È stato un po’ come mettere una vecchia t-shirt della tua band del cuore sotto agli abiti da lavoro, per riconoscersi quando ci si spoglia davanti allo specchio. Il miglior live del Flow, per me, con buona pace di chi invece si aspettava una scaletta più imprevedibile. Meglio questo approccio o quello di PJ Harvey? Non ne ho idea. Deve per forza esserne uno meglio dell’altro?
Chi invece sceglie di lasciar fuori gran parte del nuovo repertorio è James Blake. L’avevo promesso che ci tornavamo su Blake. Non lo vedevo dal vivo da un decennio buono. Per anni è stato il punto d’incontro perfetto per i miei gusti musicali. E sebbene io abbia apprezzato anche i lavori più recenti, i veri capolavori – i classici – restano i primi album (sì, lo so, suona snob). Vado al live con poche aspettative, abbasso le difese. E invece ne esco devastato. Ogni nota al punto giusto, ogni suono esatto. C’è anche una cover dei Radiohead che mi trafigge. È come ritrovare una vecchia maglietta della tua band del cuore, indossata sotto gli abiti da lavoro, che riconosci solo quando sei solo, davanti allo specchio. Per me, il miglior live del Flow. E per chi voleva una scaletta più imprevedibile? Meglio Blake o Harvey? Non lo so. Bisogna per forza scegliere?
I Pulp chiudono il festival sotto una pioggia leggera, regalando un live che coinvolge fino all’ultimo dei 30mila presenti a Suvilahti. Una lezione per chi, come i Blur l’anno scorso, aveva lasciato un po’ a desiderare (lo dico da fan accanito) e la reunion di quegli altri là (oops). Cocker sul palco è puro spettacolo: 90 minuti di contorsioni, salti e mosse da rockstar nei suoi vent’anni. I Pulp sono la più grande band cult del Regno Unito: o li ami tutti, con le loro eccentricità, o conosci solo “Common People”, e allora non hai davvero capito cosa siano i Pulp.
Si vive di contrasti: la musica sul palco e le dinamiche dietro le quinte. Non c’è un giusto o sbagliato, solo scelte: chi rischia, chi resta nei classici, chi si espone e chi no. Ci sono le aspettative, le nostre e quelle degli artisti. Forse ci resta solo vivere ciò che succede, tra alti e bassi. Ci vediamo l’anno prossimo, ancora a Suvilahti—ma non ve l’ho detto?