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Gli affascinanti Studios di Cinecittà si trasformano ancora una volta per accogliere la tredicesima edizione dello Spring Attitude. Il festival romano, ospitato per la terza volta in questa location, si sviluppa su due intense giornate, con un evento “minore” la domenica a chiudere il weekend musicale. Gli spettacoli si svolgono su due palchi, posti uno accanto all’altro, richiamando lo stile del Primavera Sound. Mentre un palco ospita l’esibizione, sull’altro si preparano scena e soundcheck. Il risultato è un flusso continuo di musica, senza un attimo di pausa tra un’esibizione e l’altra. Un ping pong di suoni che spazia tra musica indie ed elettronica, chitarre distorte e suoni dub, dalle 16:00 alle 3:30 di notte.
Il nome evoca la primavera, il meteo sembra autunnale, il mood è estivo ma c’è spazio anche per gelidi set invernali in prestito dall’Islanda. Il primo giorno è dominato dalla scena musicale italiana, con un’anima dance. Il secondo giorno, invece, vira verso atmosfere più minimaliste e rock. Anche il pubblico riflette questo cambiamento, passando dai look colorati e vivaci del primo giorno al total black del secondo.
Il festival si apre con RBSN e Marta Del Grandi, due artisti italiani dalla vocazione internazionale. A seguire è il turno di Marco Castello che, grazie all’hype generato da TikTok e ai brani del suo ultimo album, ha consolidato una fan base sempre più solida. Il “So che ti sei offesaaa, meglio così”, viene urlato sempre di più, di data in data.
La sua performance è accompagnata da una pioggia improvvisa, tanto fuori contesto rispetto al suo stile, quanto perfetta per introdurre l’esibizione di Daniela Pes. Daniela Pes si conferma il must see di quest’anno. Il cielo dopo la pioggia diventa la cornice ideale per accogliere la sua dimensione sonora di suoni elettronici e vocalizzi dosati con una precisione chirurgica.
L’atmosfera muta nuovamente con l’arrivo di Cosmo, gran parte del pubblico è lì per lui, per l’ultima tappa del suo tour. Cosmo è un intrattenitore perfetto, ha una tipologia di show perfettamente funzionale e non perde l’occasione per mostrare apertamente le sue idee politiche. Anche Motta il giorno seguente si comporterà in modo simile, con interventi mirati antifascisti.
Dopo Cosmo tocca a Barry Can’t Swim, dj scozzese recentemente nominato ai Mercury Prize. I brani del suo ultimo album funzionano molto bene anche live, ma la sua performance sembra “spenta” rispetto alle precedenti tappe del tour. Senza la cantante e il batterista, che spesso lo accompagnano, Barry Can’t Swim appare leggermente spaesato, a tratti troppo prevedibile.
A chiudere il primo giorno ci pensa MACE, prima di lasciare la scena ai due gruppi finali, The Blaze e Jersey, entrambi francesi, entrambi in duo. I primi propongono un sound più “deep”, mentre i secondi puntano su un tamarrissimo ed arrogante 4/4 con BPM accelerati. I primi con i visual, i secondi con una performance molto attiva, entrambi portano a casa una performance degna di nota, due live promossi a pieni voti.
Il secondo giorno non piove ed è già una piccola conquista. Le chitarre diventano protagoniste ed il festival si tinge di atmosfere più alternative.
I Fat Dog, qui una intervista degli scorsi giorni, aprono il pomeriggio con uno show decisamente folle. Poi arriva una combo forse non troppo riuscita. I Bobby Joe Long’s Friendship accompagnano un suono dark wave a testi romani irriverenti, ma la performance non decolla mai del tutto, complice anche l’inserimento in un orario pomeridiano che li rende a tratti fuori contesto. A seguire i Bar Italia che, pur avendo tutte le carte in regola per offrire uno spettacolo di livello, non riescono a convincere. La band suona bene e Nina Cristante si distingue come una frontwoman di grande carisma – grazie ai suoi balletti oscillatori – ma l’impressione è che manchi qualcosa. Problemi tecnici con il mix della voce – a tratti troppo alta o troppo bassa – ed una piccola polemica riguardante la chiusura del set finiscono per smorzare l’impatto complessivo della loro esibizione, lasciandola piuttosto impalpabile.
Al contrario, Emma Nolde e Whitemary si rivelano due piacevoli sorprese. Emma Nolde, con la sua eleganza ed una voce particolarmente espressiva, rapisce il pubblico durante la sua esibizione pomeridiana. Whitemary, invece, si esibisce a tarda notte con un’energia invidiabile ed un sound simile a Cosmo del giorno prima.
Il secondo giorno prevede come headliner italiano Motta, accompagnato sul palco da un supergruppo che comprende Whitemary alle tastiere e voci e Roberta Sammarelli al basso, in prestito dai Verdena. L’atmosfera è quella di una grande festa e Motta sembra godersela, approfittando dell’occasione per annunciare l’uscita imminente di un nuovo album. Tra gli ospiti della serata ci sono anche due figure iconiche della scena indie/rap, Danno e Andrea Appino. Il risultato è un live sentito e ben eseguito, arricchito da improvvisazioni musicali abbastanza riuscite.
Nella “guerra” per il trono del rock contemporaneo, i Viagra Boys si presentano come gli underdog per eccellenza, inattesi e troppo poco raffinati. In mezzo ai fan con magliette degli Idles e dei Fontaines D.C., loro rispondono con birra, sigarette e pura strafottenza. Sebastian Murphy entra sul palco, dopo Motta, si toglie la maglietta praticamente subito e mostra fiero la sua pancia da birra, alimentata abbondantemente anche durante il concerto. La sua voce raggiunge le tenebre dei più famosi pseudo-crooner, è impregnata di sporcizia ed è perfetta per quel suono post punk. La sezione ritmica è martellante e costante, crea una base perfetta per il sassofono di Oskar Cars, che si diverte alternando assoli a movimenti da soubrette. C’è spazio anche per un nuovo singolo, insulti vari, pogo continuo, stage diving del tastierista e diverse improvvisazioni con il frontman che lascia spesso la scena ed il palco alla band. Alla fine i Viagra Boys sono tra i live più centrati e divertenti della giornata.
A seguire, i Mount Kimbie riescono a incarnare perfettamente l’anima sonora del festival, con il loro mix di elettronica e pop. L’inizio è forse un po’ troppo soft ma, quando arrivano i pezzi più famosi, si percepisce un netto cambio di marcia anche nella risposta del pubblico.
Bene anche il set dei Kiasmos, accolto dall’iconico rombo luminoso, ottimo per concludere questa parte di serata. I nuovi singoli si fondono perfettamente con i classici del loro repertorio. Anche se forse penalizzati da un contesto musicale molto diverso, Ólafur Arnalds e Janus Rasmussen riescono comunque a regalare un’ora di elegante elettronica raffinata.
A chiudere i due giorni di festa ci sono Acid Arab e Sama’ Abdulhadi. Sorprendentemente, nonostante l’ora tarda, il pubblico rimane numeroso e coinvolto, senza mostrare segni di cedimento, complice un sound decisamente spinto, impossibile da neutralizzare.
Il clima generale di questi due giorni conferma quanto sia vitale, in Italia, una proposta simile.
Settembre segna l’inizio di una nuova stagione, con le sue aspettative e i suoi obblighi. Leggere sul maxi schermo l’invito a posare il telefono e a godersi il momento è forse ciò di cui tutti avevano davvero bisogno.
Non importa la pioggia, né quale genere abbia prevalso, il mix è stato perfetto e l’alchimia tra le scelte italiane e nomi internazionali è stata una piacevole sorpresa. Ci sono state molte conferme e qualche delusione, ma l’essenza del festival è rimasta viva e questo è un segno importante anche per le edizioni future.
(Giuseppe Gualtieri)