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Kelly Lee Owens torna oggi con il suo quarto album, “Dreamstate”. Quattro album non sono tantissimi ma noi crediamo che la producer gallese sia decisamente importante in questo snodo di fine anni Dieci/inizio Venti, per cui abbiamo deciso di fare un recap delle sue 7 canzoni più belle. Ecco qui la nostra Top 7.
7. “One” (da “LP.8”, 2022)
In un album – diciamocelo – bruttino e condizionato al massimo dalla composizione in lockdown, molto cupo e ambientale, emerge questa “One” in cui la voce della nostra Kelly Lee si fa pulita e chiara, e si staglia nitida come un faro che ci guida fuori dal guado.
(Paolo Bardelli)
6. “On” (da “Inner Song”, 2020)
Di quella incessante tensione fra ambient pop dai contorni profondamente sognanti e traiettorie tech house tanto care all’artista gallese, “On” è una delle manifestazioni più fulgide. Il brano si schiude con una voce tanto leggera da comunicare l’idea della levitazione, immersa in stratificazioni dreamy: i suoni sono lievi e avvolgenti, il ritornello condensa l’idea di rinascita e di un movimento, rigorosamente ascendente, che è dolce e inesauribile, per quanto inevitabile (“So / This is how it must go / And now I am moving on”), mentre una vibrazione elettrica percorre il brano, con pulsazioni che si agitano tra le sue pieghe. Proprio in quegli anfratti, una volta sfumato e consumato l’incedere onirico, è depositato il seme di un’evoluzione techno: un piccolo prodigio compositivo che rende semplicemente fisiologica una metamorfosi che tale non è e non potrebbe essere. L’approdo di quella direzione non è più il firmamento, bensì un club, e Kelly Lee Owens ci illude del fatto che non potesse andare diversamente, con la voce che scompare quasi del tutto, eccezion fatta per i loop che servono ad alimentare i climax acidi della seconda parte. Un altro brano, ma è lo stesso brano: due anime diverse intrecciate, abbracciate, completamente fuse, in qualche modo negando l’idea di una semplice somma di singoli elementi giustapposti.
(Piergiuseppe Lippolis)
5. “Dreamstate” (da “Dreamstate”, 2024)
La titletrack del nuovo album è il manifesto del nuovo corso della nostra: una canzone specificatamente pensata per il dancefloor, dreamy, strizzante l’occhiolino alle esperienze dei ’90 degli Underworld ma pur sempre con un risultato pienamente personale. Il brano ci solleva a mezz’aria e nella sua parte finale si avviluppa con un crescendo totalizzante di equalizzazioni e di sensazioni chimiche.
(Paolo Bardelli)
4. “Lucid” (da “Kelly Lee Owens”, 2017)
Non ci si deve dimenticare che la Owens, prima di fare la producer, era un’infermiera e ha portato, all’interno del suo essere musicista, alcune sue sensibilità in tal senso e si è proposta quindi di indagare le “correlazioni tra
suono, guarigione e frequenze di risonanza” (sue dichiarazioni dell’epoca). Questa tensione è ben rappresentata nel suo album di debutto omonimo dove l’elettronica assume una consistenza ambientale ma soprattutto mentale, in un non-luogo capace di estraniare a tal punto da confondere i punti fermi dell’ascoltatore con lusinghe e affabulazioni. “Lucid” non rende lucidi, ma nasconde, fa trapelare e poi nasconde. Come un viaggio perturbante che si trasforma, alla fine, di un tunnel senza uscita. (Paolo Bardelli)
3. “Love You Got” (da “Dreamstate”, 2024)
Il singolo che ha anticipato l’album uscito oggi è stato, quest’estate, un’epifania: avevamo capito che Kelly Lee Owens si era lasciata alle spalle i timori e le titubanze “da cameretta” di “LP.8” per lanciarsi decisamente verso la vita, verso l’esterno. In “Love You Got” la direzione dell’artista gallese si fa decisamente pop, la cura per i suoni è maniacale, la sua concezione di elettronica si fa più lineare ma non per questo meno interessante. Si tratta di capire dove volere andare, e la Owens vuole entrare in questa metà degli anni Venti più consapevole delle sue possibilità di arrivare alle persone, in un modo più positivo. Più euforico.
Wanting pure euphoria
(Paolo Bardelli)
2. “Anxi” (da “Kelly Lee Owens”, 2017)
“Anxi” è un bolla allo stesso tempo caustrofobica ed eterea, esempio di come Kelly Lee Owens sa giocarsela sui due campi da gioco, rimpallandosi le atmosfere come un abile giocoliere. È un brano che poi a un certo punto cambia improvvisamente di direzione (caratteristica precipua dell’album di debutto della nostra) sorprendendo ancora una volta ed entrando in un ambito psichico-anestetico. Che – non a caso – si conclude con una dichiarazione di totale spaesamento: “Non so chi sono”
And I started talking
And I / I don’t know who I am
(Paolo Bardelli)
1. “CBM” (da “Kelly Lee Owens”, 2017)
Era la settimana del mio compleanno di ormai più di qualche anno fa. Il disco d’esordio di Kelly Lee Owens sarebbe uscito in quei giorni – un inconsapevole regalo, anticipato da tre singoli che stuzzicarono fin da subito la mia curiosità. Dentro a quei primi brani c’era, in forma liofilizzata, un suono che sembrava fatto apposta per le mie orecchie e il mio palato musicale: qualcosa che mescolava la musica elettronica, la sperimentazione, la tensione verso melodie pop. Di quel disco – di cui scrissi anche una recensione, cosa che non succede praticamente più ora, a riprova del tempo che passa – ricordo anche il primo singolo anticipatore, “CBM”, ancora oggi una delle mie tracce preferite della producer gallese. Inizia con un basso ciccione che rimbomba nelle profondità dell’addome e poi prosegue con linee di acid-house che si muovono sinuose per tutta la durata del pezzo: un fascino dimesso, una irresistibile danza ovattata. Tornando ai regali inconsapevolmente ricevuti, e ancora al tempo che passa, questa storia finisce così: Kelly Lee Owen, avvolta in un vestito giallo e di fantasia pitonata, al centro del palco del festival che organizzo ogni estate nel paese che sono cresciuto, pronta ad iniziare il suo live. La prima traccia? Ma che ve lo dico a fare.
(Enrico Stradi)