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Questa sera al Teatro Al Parco di Parma, nell’ambito del programma della XVIII edizione de Il Rumore del Lutto Festival, si esibiranno i Tindersticks, che tornano in Italia per un’unica data. Il concerto è sold out da diverse settimane, a testimonianza di un culto che, dopo oltre 30 anni di attività e quattrodici (!) album alle spalle, non accenna a tramontare. Proprio l’ultimo disco, “Soft Tissue” anticipato da alcuni singoli di caratura eccellente come “New World” e “Always a Stranger”, sarà al centro della scaletta che, pare, non prevederà nessuno dei pezzi dei primi due storici album del gruppo. Peccato. Sia chiaro, l’attesa resta comunque molto alta, tuttavia, come per tutte le grandi band con discografie sontuose alle spalle, la speranza dei fan è sempre quella di sentire suonare le canzoni del cuore; soprattutto quando i due album in questione, intitolati sardonicamente “The First Tindersticks Album” (il primo), e “Tindersticks” (il secondo), sono universalmente riconosciuti come i due capolavori della band. Sia chiaro, nella sua lunga carriera il gruppo britannico ha seminato molte perle (qui trovate le nostre recensioni, alcune risalenti addirittura al 2001 e 2004), ma questo giovedì 31 ottobre, non a caso giorno di Ognissanti e/o di Halloween, ci sembra il momento più adatto raccontare qualcosa sui primi Tindersticks. L’oscurità è infatti uno dei tratti più distintivi della musica (e della carriera?) della band di Nottingham.
Fondato nel 1991 dal cantante Stuart Ashton Staples e dal chitarrista Neil Fraser, a cui in seguito si aggiunsero il dotatissimo polistrumentista Dickon James Hinchliffe (autore, come lo stesso Staples, di numerose colonne sonore) e David Leonard Boulter a tastiere e percussioni, il longevo gruppo inglese ha avuto una carriera costellata da molte soddisfazioni e pochi trionfi. Amatissimi e spesso copiati da band che poi hanno avuto ben altra fama (tra tutti i The National, ma diciamolo a bassa voce…), i Tindersticks non hanno mai davvero raggiunto lo status di star, nonostante molti delle loro composizioni degli anni ’90 non avessero nulla da invidiare ai pezzi di band che hanno invece raggiunto l’olimpo in quel periodo.
Mentre nomi come Oasis, Blur, Pulp e Suede scalvano le classifiche, l’ensemble di Nottingham stabilitosi in pianta stabile a Londra, dava vita a una nuova forma di dark pop orchestrale, fondendo le lezioni del grande cantautorato anni ’60 e ’70 (Leonard Cohen e Scott Walker su tutti, ma anche il primo Alexander Spence e Nick Drake) con le atmosfere plumbee e il crooning misticheggiante di Nick Cave, passando per gli sporchi blues da nightclub di Tom Waits. Il risultato? Una cifra stilistica unica, capace di evocare sonorità e sensazioni diverse ad ogni brano, senza mai abbandonare un immaginario intimo e notturno, pregno di fumo di sigarette e cuori spezzati.
Per parlare di “The First Tindersticks Album” servirebbe un vero e proprio saggio, e non è detto che qualcuno prima o poi decida di scriverlo o non l’abbia già fatto. Anche sforzandosi, è davvero difficile trovare un disco della stessa epoca che incastri un filotto di brani della stessa intensità delle prime sette-otto tracce di questo album. Impresa ardua scegliere una preferita tra lo psicodramma da marciapiede di “Whiskey and Water” o la criptica confessione dai toni sommessi di “Marbles”, con i suoi onnipresenti violini. Se chi scrive fosse obbligato scegliere una sola carta dal mazzo, la corona da regina andrebbe alla favolosa “Blood”. Cullato da un’ipnotica linea di flauto, Stuart Staples, con poco più di un sussurro, ci narra di un amore eterno ed in eterno tormentato. Il primo verso, che recita “was there once something so pure, that left me whole and precious?” è qualcosa che, una volta ascoltato per la prima volta, difficilmente si scorderà. Merita una menzione anche la successiva, “City Sickness”, che suona esattamente come il titolo potrebbe far pensare. Ci immaginiamo il nostro narratore perso nelle strade di una città da sempre sua ma che ormai fatica a riconoscere e da cui vorrebbe soltanto fuggire, senza riuscirci. D’improvviso la spietatezza della vita nelle metropoli di ieri, oggi e domani, ci viene sbattuta in faccia con disperata grazia. Man mano che il disco procede, le atmosfere diventano più caotiche, i battiti aumentano, i fiati si fanno più prorompenti e il suono dei violini si trasforma in stridore. Tutto questo incide sulla purezza delle melodie? Per nulla, e se non è questa magia, poco ci manca. Per dovere di cronaca, citiamo ancora, in ordine sparso, il teatro delle ombre di “Jism”, le atmosfere da film di James Bond di “Paco de Ranaldos Dream” e la chiusura malinconicamente felice di “The Not Knowing”.
L’obiettivo era di parlare in questa sede anche del secondo album omonimo, ma il rischio sarebbe quello di ingabbiare in poche righe un altro piccolo capolavoro che meriterebbe fiumi di inchiostro. Magari lo faremo proprio in occasione di un altro Giorno dei Morti, tra uno, cinque o magari trent’anni. Siamo certi che ci sarà ancora qualcuno che, con un bicchiere di vino in una mano e una sigaretta nell’altra, danzerà vestito di nero nella propria stanza sulle note dei Tindersticks.