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Se c’è un aspetto che è assodato è la qualità intrinseca di tutte le b-sides dei Radiohead: così, allo stesso tempo (perché non si può non legare la parabola degli Smile a quella dei Radiohead), il terzetto Yorke-Greenwood-Skinner intitola, forse con un po’ di ironia, “ritagli” (“Cutouts”) il secondo album in un anno, quando invece si tratta di dieci canzoni totalmente autonome e dotate di una profondità indubitabile, altroché scarti o pezzi minori. Seppure registrati nelle stesse sessions di “Wall Of Eyes” (2024), è evidente che gli Smile sono andati in studio con Sam Petts-Davies per registrare una pletora di brani assolutamente di qualità, per cui si può dire tranquillamente che lo split in due dischi è stato pensato e scelto fin dall’inizio, non potrebbe essere altrimenti. E questo ci interroga maggiormente per comprendere quale sia stato il discrimine tra l’uno e l’altro progetto. Non si tratta di fare un parallelo musicale con “Kid A” e “Amnesiac”, perché gli Smile suonano altre cose rispetto ai Radiohead, ma di svolgere un ragionamento basato sul fatto che quello snodo di inizio millennio dei Radiohead è coinciso con una fase di stravolgimento totale in cui la sperimentazione la faceva da padrone, per cui in questo caso o ci troviamo di fronte a una iper-produzione compositiva che i nostri si sono trovati casualmente tra le mani, oppure si tratta anche questo di uno snodo importante. E per certi versi è facile capire il perché: dopo il primo album (“A Light For Attracting Attention”, 2022) gli Smile dovevano far capire a se stessi e al mondo che erano altro rispetto ai cinque di Oxford, per cui è probabile abbiano affidato a loro stessi e alla loro capacità compositiva un obiettivo sfidante ovvero la registrazione di quello che poteva essere un doppio album e che si è poi manifestato come due album separati da qualche mese di distanza. Ma quanti mesi? Come per “Kid A”/”Amnesiac” si tratta di circa 9 mesi, come a dire che il tempo per interiorizzare un album è quello di gestazione di un bambino, di un “kid” che a questo punto non è più fermo alla “a” bensì è molto più avanti nell’alfabeto.
Non c’è una chiave di lettura definitiva per comprendere quel discrimen di cui discorrevamo prima: “Cutouts” non è né più jazz, né più sperimentale, né più pop, né più prog, né più elettronico di “Wall Of Eyes”. Entrambi esplorano mondi complessi in cui non c’è una sola risposta possibile bensì una moltitudine: c’è il jazz da club mischiato alle orchestrazioni di “Tiptoe”, le svisate impazzite ed elettriche di “Zero Sum” e “Eyes & Mouth”, i panorami sintetici (che però pulsano di vita) di mondi bladerunneriani dell’iniziale “Foreign Spies”, la semplicità acustica sporcata di complessità orchestrale di “Instant Psalm” che nella struttura potrebbero ricordare canzoni vecchissime dei Radiohead stile “Faithless, the Wonderboy” (tutto torna), ma è con la vecchia passione per l’elettronica mischiata dall’elettrico che gli Smile trovano veramente la quadra. Canzoni come “Don’t Get Me Started” e “The Slip” mandano a memoria le ispirazioni elettroniche di Thom Yorke (mai sviluppate al meglio con gli Atoms For Peace e ben focalizzate solo nel secondo album solista) ma godono di necessità dei tempi dispari di Skinner e dell’istinto di Greenwood, non potrebbero essere altrimenti.
L’abbiamo già annotato per “Wall Of Eyes” ma qui deve essere sottolineato con la matita rossa: gli Smile non sono i Radiohead, e questi ultimi probabilmente non potrebbero suonare le stesse canzoni, certamente le suonerebbero diversamente. Se i Radiohead andavano alla ricerca della loro musica in maniera un po’ ondivaga con una certa ampollosità di fondo, gli Smile sono dotati di una essenzialità da paura, di una capacità estrema di sezionare gli atomi musicali senza suonare una nota in più, aggiungere un suono inutile, riempire una pausa che potrebbe essere, più proficuamente, lasciata in silenzio. Merito probabilmente di una maturazione del duo Yorke/Greenwood, ma senza ombra di dubbio dell’apporto chirurgico di Tom Skinner.
E qui ci viene in aiuto, nella comprensione dell’album, l’immancabile copertina di Stanley Donwood che anche questa volta – mi dispiace ripetermi ma lo devo fare – è impossibile non definire magnifica: vengono meno gli aspetti fantascientifici (gli occhi volanti) di “Wall Of Eyes” per concentrarsi sugli elementi naturali, il cielo notturno, una luna che illumina come un sole, una notte con gli immancabili cipressi e un fuoco magmatico, un mare verde ipnotico che ospita creature tra il naturale e il soprannaturale. È come se gli Smile stessero andando più a fondo in quel liquido amniotico verde come per aiutarci nella ricerca più profonda di noi stessi, delle nostre limitatezze, della nostra finità.
E, comunque, se volete saperlo no, non c’è né una risposta né una via d’uscita.
‘Cause we can’t escape
You’re gonna say goodnight
80/100
(Paolo Bardelli)