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Galeotto fu un berretto: se oggi posso sentire questo disco devo ringraziare un copricapo, a quanto pare! Si perché l’autrice Rita Payés ha iniziato a suonare il trombone grazie alla vista di un trombonista di strada che indossava un buffo cappello; e il cappello le piacque così tanto che il suonare il trombone e l’indossare quel berretto divenne un tutt’uno, una promessa nuziale. Fantasie di una bambina, certo; ma anche una di quelle fulminazioni precoci che definiscono un qualche tipo di imprinting.
Salto temporale al 2024: Rita è una promettente musicista e compositrice che passa dallo strumento al canto con la facilità e il passo spigliato della gioventù. Classe 1999 e nata in una famiglia dove la musica impregna le mura domestiche, con questo “De Camino in Camino” la nostra approda alla tappa del terzo disco, dopo due incisioni in cui si faceva accompagnare dalla madre, la chitarrista Elizabeth Roma, la quale rimane saldamente al suo posto anche in questa terza fatica.
Dedicato alla bellezza del quotidiano, “De Camino in Camino” è un album che si muove a passo di danza senza sbattere i tacchi, ma che anzi volteggia come se il pavimento fosse nuvola. Le coordinate musicali sono quelle di un jazz impastato di flamenco e condito di bossa nova, e l’equilibrio non manca. Stilisticamente è una tripartizione: da un lato ci sono episodi acustici in cui le chitarre si intrecciano a cascata come fossero acqua (“No Es la Lium”; “Nana Per Las Mamas”); dall’altro troviamo danze come “El Cervatillo” che si snoda tra ritmi latini e improvvise aperture armoniche o “Por Que Serà”, che ne replica le fattezze a livello melodico, ma questa volta affidandosi ad un arrangiamento per chitarra ed archi; e dall’altro lato ancora ci sono slanci di classica contemporanea (“Tantas Cosas”). Tutto questo è impreziosito dalla voce della Payés, che affascina nel suo essere già matura pur non nascondendo un timbro dalle suggestioni timidamente fanciullesche.
Tutto bene, quindi? Non proprio, perché se da un lato la musicalità del gruppo, l’eleganza della scrittura melodica e certi lampi armonici sono un piacere che fa sgranare più di qualche occhio, a lungo andare il disco pecca di mordente. E’ un attimo che l’equilibrio e il preziosismo si trasformino in stucco; ci vuole un secondo perché la leggiadria si confonda in una dolce rarefazione che ogni tanto sfocia nella ripetitività, (“Benvignudes” ricalca quanto detto in “El Cervatillo”) o nell’impalpabilità (“Juna”).
Tra profluvi di corde, ritmi sornioni, giravolte spesso inattese – vedasi il delizioso cambio in swing di “Se Transformarà” – il disco è cotto a puntino ed estremamente misurato – pure troppo – , e mostra una mano di puro talento. Tuttavia, qualche graffio in più dettato dall’urgenza avrebbe probabilmente giovato.
Peccati di paradossale eccessiva saggezza! Ma si son rosas… e il terreno buono qui c’é.
67/100
(Edoardo Maggiolo)