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Dobbiamo delle scuse a Mr. Smith: oramai l’uscita di questo album si era trasformato da chimera in leggenda metropolitana con tanto di sorrisini di circostanza del tipo “sì sì, tanto non arriverà mai”. E invece, con una costanza e una precisione certosina, quando Robert si è sentito pronto ce l’ha donato. Assieme a tanti insegnamenti, di tal ché oramai lo chiamiamo proprio “zio Bob” come quella persona più grande di te da cui impari tante cose “che i genitori sono drammatici magari fossero come lo zio…”. Primo, non arrendersi mai: gli ultimi due album erano stati veramente sgonfi e poco ispirati – si può salvare praticamente solo un brano (direi “The End of the World ” ) – ma lui non si è perso d’animo, non si è buttato a capofitto in una iper-produzione scadente dettata solo dalla nebbia cognitiva dovuta alla “vecchiaia”, come molti altri artisti fanno, incuranti nel guardarsi con sincerità allo specchio e capire esattamente che stanno pubblicando roba a livelli bassissimi rispetto alla gioventù, no, lui ha atteso appunto ben 16 anni, quando era pronto. Si conosce la sua volontà di mirare alla perfezione, ed è encomiabile. Non buttiamoci via ma nemmeno non facciamo passare la vita a non decidere. Ecco, vita, un’altra parola chiave per quest’album che parla invece di morte. Perché la vita è il contraltare necessario di quella, così come la dipartita ultima dà il senso alla vita. Il significato di “Songs of a Lost World” è però capovolto, a mio parere: è vero che l’album nasce soprattutto dopo aver visto mancare il fratello e altri amici, e dunque con una consapevolezza molto forte della nostra finità, ma in questa volontà imperterrita di volerlo raccontare c’è la vita, c’è il non arrendersi, c’è il voler condividere con gli altri il termine umano che ci accomuna tutti. E la canzone simbolo in questo senso è “Endsong”, il brano che ci fa salire un groppo in gola, che pare senza speranza ma che forse va vista più in senso psicoanalitico che di parafrasi lineare.
It’s all gone, it’s all gone, it’s all gone / No hopes, no dream, no world.
Non pare esserci via d’uscita, questa vita ci ha lasciati “soli senza niente”, cos’altro si può aggiungere? Ebbene, se fosse veramente così non si potrebbe dire nulla, si starebbe in silenzio, ci si chiuderebbe in casa e basta. Invece Robert Smith lo grida, fa urlare la sua chitarra (o è quella di Reeves Gabrels? Non dimentichiamoci che questo è il primo album con il chitarrista storico dei Tim Machine di David Bowie), contorce i suoni sotto quella batteria monolitica che rappresenta lo scorrere immutabile e inesorabile del tempo, e così facendo fa scintillare quella vita perché condivide questo sentimento, ci dà la possibilità di sentirlo in lui e guardarci dentro di noi, ci rende possibile sentirci uomini insieme a lui, compassionevoli nella stessa sorte. Nel condividere la morte i Cure fanno ripartire la vita.
Del resto è sempre stato così, i Cure hanno saputo portarci dall’estremo buio delle loro canzoni più dark alla luce accecante delle loro hit spensierate che li hanno fatti conoscere a tutti, anche agli ascoltatori radiofonici più disattenti. In “Songs of a Lost World” non ci sono ballate allegre ma dolcezza sì (“And Nothing Is Forever”) condita da molta amarezza (“A Fragile Thing”) e poi c’è il sogno (“Alone”), quello splendido rifugio in cui ci hanno portato in questi 40 anni quando eravamo adolescenti, quando eravamo quasi adulti, genitori, and so on… Ci rifugiavamo in loro e i Cure splendevano in noi, oggi li guardiamo ed è come uno specchio, ci stiamo guardando, noi e la nostra storia che è andata in parallelo con Robert Smith. Per questo amiamo la sua testardaggine, le sue dichiarazioni che non si materializzano (chi si ricorda dell’album solista?), e il suo essere un eterno ragazzino malinconico e ostinato, come noi. Per questo non ci interessa che “Songs of a Lost World” suoni molto come “Disintegration”, come se fosse una colpa, come se il legittimo autore di quel capolavoro non avesse il diritto di riprovare a rivisitare la magia che pervade l’album del 1989, di reinseguirla. Allora c’era il terrore di compiere 30 anni, di diventare adulti, ora c’è davanti solo l’estremo momento. I Cure ci avevano provato già a rifare “Disintegration” con “Bloodflowers” ma – nonostante quest’ultimo non fosse un album brutto e anzi con diversi momenti interessanti – non ci erano riusciti.
Questa volta invece i Cure sono riusciti a mettere in “Songs of a Lost World” la stessa lucidità di “Disintegration”, il medesimo sentimento di perdita, di passaggio, e ciò si riflette anche nella precisione stilistica dei brani, particolarmente definiti e riconoscibili. E chi si lamenta delle intro lunghissime forse non ha mai sentito bene i Cure, perché hanno sempre giocato molto con questa tecnica di disorientare l’ascoltatore per lungo tempo prima di colpirlo al cuore con la voce di Robert Smith.
“Songs of a Lost World” è infine un album molto onesto, è quello che di meglio i Cure potevano fare modellando a poco a poco le migliori idee di questi ultimi 16 anni in cui il mondo è stato rivoltato come un calzino (nel 2008 non c’erano ancora gli smartphone, per esempio), provando la resa dei nuovi brani dal vivo prima di registrarli, tastando il polso se erano all’altezza di suonare accanto agli altri.
Essendo sé stessi. Accettandosi (“That all I ever am is somehow never quite all I am now”). Andando avanti. Senza paura di fermarsi. Perché lo sappiamo cosa ci aspetta tutti, ma non vogliamo pensarci.
And all for fear of what I’ll find if I just stop
E tutto questo per paura di ciò che troverò se mi fermerò.
I Cure ci sono, suonano, e basta così. Loro non si fermano, non ci arrenderemo nemmeno noi.
77/100
(Paolo Bardelli)