Vampire Weekend, Adidas Arena, Parigi, 13 Dicembre 2024
Ho visto i Vampire Weekend due volte dal vivo, nella mia vita. La prima è stata nel 2013, a Dublino, in quello che possiamo considerare un’appendice del viaggio di nozze (davvero, del tipo: ok, tornati dal viaggio, facciamo un salto a questo festival a Dublino visto che in Italia i Vampire non vengono più?).
La seconda qualche giorno fa, a dicembre del 2024, a Parigi, in una entusiastica sorpresa dove a quella moglie del viaggio di nozze si è aggiunta una bambina, di otto anni (del tipo: non le diciamo niente, la carichiamo diretta da scuola in aereo, le facciamo vedere questa città che sogna da sempre e poi le facciamo sentire questo gruppo di cui tutti e tre abbiamo consumato il disco quest’anno).
Questo già potrebbe essere una spiegazione sufficiente a inquadrare il percorso personale per chi scrive: perché per quanto lo possiamo negare, la storia di come viviamo la musica è anche il fortissimo legame alle persone, ai luoghi, a con chi abbiamo condiviso un disco, di chi ce l’ha fatto conoscere, ad un concerto vissuto assieme.
È un legame, insomma, che consolidiamo dentro alla nostra vita: eppure quello che rimane dentro a questa serata parigina, dentro alla nuovissima Adidas Arena, inaugurata da pochi mesi e casa della squadra di basket della città, è la certezza di avere visto un gruppo al sorprendente apice della propria grandezza e maturità.
E che questo tratto sia avvenuto in un qualche bivio tra il terzo e il quinto album del gruppo: se infatti i primi due (2008-2010) ne avevano sancito le incredibili qualità di scrivere perfette tre-minute-song con quelle influenze ritmiche che più che al rock guardavano a ritmiche etniche, se il terzo disco (2013) aveva iniziato a cambiare le carte in tavola, da quel momento in poi la discografia dei nostri ormai quarantenni di New York si è estremamente rarefatta.
Solo due dischi in undici anni: il buono ma a tratti imperfetto “Father of the Bride” e poi, quest’anno, l’ottimo “Only God Was Above Us” che si è seduto direttamente nella postazione di quei dischi che ambivano alle classifiche di miglior disco dell’anno (anche da queste parti).
Nel cammino tra quell’album e questo live a Parigi c’erano stati diversi segnali di una band ormai matura e ad un punto di svolta: basti vedere una perfetta “Mary Boone” e una delicatissima “Capricorn” già nei giorni di presentazione del disco, che sembravano essere quel momento in cui ritrovi un vecchio amico, che conoscevi da giovane, talentuoso e allo stesso tempo ancora leggero, ragazzo acerbo e poi ti si presenta sul palco da speaker come leader di una azienda, perfettamente a suo agio a giocare tra i grandi.
E qui permettiamoci quello che dovrebbe essere il giudizio finale, di questo parliamo: di giocare tra i grandi.
I Vampire Weekend di questo tour sono un gruppo che ha tre elementi in formazione, che inaugura i concerti in questa dimensione intima e che dopo tre o quattro brani mostra il suo vero lato, facendo volare via un tendone e mostrando, oltre alla scenografia di sfondo (una specie di Stargate) una formazione a sette, con doppia batteria, violino, sax, chitarre, basso e tutto quello che si può immaginare su un palco di un gruppo all’apice della propria maturità.
Una scaletta impostata quindi su questa partenza a sorpresa, dall’intimismo alla grandiosità dei primi brani alle produzioni più recenti, già adorate dal pubblico (non è poco, per un quinto album, in un’epoca di nostalgia).
E poi, di nuovo, un tendone diverso che anticipa un cuore centrale fatto di dilatazioni sonore, dove i brani vengono distorti e allungati e diventano momenti di virtuosismo personale e poi di nuovo, una dopo l’altra Diane Young, Cousins e A-Punk, per fare esplodere il pubblico.
Staranno sul palco per due ore e mezza, i Vampire Weekend: 26 brani per intero, più una corposa sezione nella parte dei bis, in cui suonare in maniera totalmente improvvisata, canzoni a richiesta da parte del pubblico: da “Liztomania” dei Phoenix ad una (riuscita) “505” degli Arctic Monkeys, dalle assurde quanto divertenti “Believe” di Cher e “Chop Suey” dei System of A Down.
Si chiude con Walcott, dal primo album, nonostante forse il momento più riuscito sia la prima chiusura, una lunga, intensissima “Hope” che chiude il nuovo disco e diventa una lenta passerella conclusiva di oltre dieci minuti che in un’altra epoca avrebbe un impatto simile a quella “Tender” dei Blur con cui condivide quell’accenno di ritmo gospel riuscito ed emozionante.
Insomma, un gran live: di ragazzini che sono diventati grandi, di professionisti che sono oggi tra i migliori autori di canzoni di quel pop coltissimo che dovrebbe valicare i pubblici di nicchia e che, invece, anche quest’anno ha saltato l’Italia, nel suo tour europeo.
E per questo, ho visto due volte i Vampire Weekend ed entrambe all’estero: se escludiamo un passaggio a Milano nel 2019, è dal 2010 che non li vediamo nel nostro paese e per quel che sappiamo è per lo scarsissimo pubblico presente, specie nei primi tour.
A cui si aggiunge la sempre maggiore periferia culturale per cui stiamo diventando noti.
Divertente allora che esista un vinile speciale dal vivo chiamato “Una notte a Milano” , divertente che includa una doppia versione di “Bambina”, divertente che sia stata una bambina ad averci riportato a prendere un aereo, per concederci un piccolo evento speciale.
Che per noi è un altro segno insindacabile di un rapporto personale con questo gruppo, ma che per tutti è il segno giallo di evidenziatore su un gruppo, un disco e un tour che sarebbe davvero un peccato perdere.
Altrimenti non diciamoci più che non si scrivono più canzoni memorabili e generazionali: forse è che non le sappiamo più cogliere.
(Alessio Falavena)