Khruangbin – Live @ Milano, Alcatraz. 11.11.2024
Un portico di cartone con tre arcate, usato come sfondo sul palco, risalta la figura e la personalità di Laura Lee, bassista dei Khruangbin, insieme a quelle del chitarrista Mark Speer e di “Dj” Donald Johnson alla batteria. Il fatto che la band sia composta da soli tre elementi rende ancora più complesso spiegare l’energia e la quantità di influenze e riferimenti convogliata dal gruppo texano. Lo spazio dell’Alcatraz viene riempito interamente dal pubblico, in quella che è l’unica tappa in Italia dei nostri, impegnati in un tour dopo la pubblicazione dell’ultimo album (A La Sala).
La scelta del gruppo spalla non può essere più azzeccata rispetto alla voracità stilistica del trio, infatuato di sonorità incanalate tra la world music e chitarre imbevute di psichedelia. I Peter Cat sono un collettivo dall’India ben nutrito di musicisti che mette sul piatto ritmi ricchi di arrangiamenti e un sapore di fine anni ’60. L’approccio strumentale, vivace e cesellato da molti strumenti, tra cui l’armonium, non esclude dei momenti malinconici. La band si rivela una realtà interessante e costituisce dal vivo una scoperta intrigante.
I Khruangbin si presentano con una scaletta ben ragionata, e aprono il live con l’esecuzione integrale del disco pubblicato nel 2024. I brani di A La Sala scorrono senza intoppi. Le canzoni si sedimentano con intensità crescente, arrivando piano a scaldare il club milanese. Pezzi come “May Ninth”, “Pon Pon”, “Hold me up (Thank you), “Three From Two” “A love international” esprimono il sound originalissimo della band di Houston, tra atmosfere western, soul, funk e cinematiche. Proprio il cinema è in effetti uno degli elementi principali del terzetto, che ha ammesso di avere talvolta composto ispirato dalla visione di alcuni film. L’aspetto visivo è sempre stato una componente non da poco, se consideriamo i look estrosi di Laura, l’importanza delle immagini all’interno dei videoclip, capaci di evocare quello spazio geografico senza confini presente nell’immaginario della band, che va dall’estremo Oriente, dalla Thailandia all’Iran e Messico, dai deserti fino alle metropoli (Khruangbin in thailandese ha proprio il significato di aeroplano).
A suggellare la chiusa dell’album l’effetto di un fulmine scagliato sull’Alcatraz che con il rumore della pioggia e del tuono pone fine a questo primo set. La seconda parte si apre con un omaggio riservato in esclusiva all’Italia, la cover de “Il Clan dei Siciliani” di Ennio Morricone. Seguono “August 12” e la ripresa, al contrario, di “August 10”. I brani, impreziositi da cori, a tratti sensuali, in diverse lingue, sono scelti con cura: la toccante “So we won’t forget” introduce un altro singolo, “Pelota”, riferimento più evidente alla cultura ispanica. La parte finale del concerto è interamente danzereccia con “Evan Finds the third Room” e “Maria tabien” mentre scorrono le immagini, non prive di ironia (cifra tipica del trio), tratte dai videoclip di donne e uomini scatenati impegnati nel ballo, che ricordano da vicino quelle di “Let’s Dance” di David Bowie.
Il momento del bis è un tuffo nel passato. Dai primi dischi sono tratte “White Glove”, contenuta nel lavoro di esordio del 2015, The Universe Smiles Upon You. Vertici, sia del live in senso stretto, in quanto suonate per ultime, sia del percorso artistico della band, sono i brani conclusivi della scaletta: “Time (You and I)” tratto da Mordechai (2020) e “People Everywhere” (Still Alive”). Quella dei Khruangbin è una risposta peculiare e una sfida all’omologazione e alla ricerca di un etichetta che ne possa delimitare il genere. E noi siamo sicuri che avranno ancora molto da dire in futuro.
(Eulalia Cambria)