Nel 2024, rispetto agli anni precedenti, ho ascoltato un po’ più di quelli che chiamerei “dischi con le chitarre” e non è che la cosa mi dispiaccia, anzi. Non credo dipenda tantissimo da me e quindi un ipotetico mio ricongiungimento con quel che non è elettronica o black ma proprio perché c’è veramente un sacco di roba bella con sopra l’etichetta “rock”, che sia post qualcosa, che sia glam, che sia indipendente o classicheggiante. I Fontaines D.C. mi hanno colpito ben più del previsto, credo anche per una cosa di contrasti: il capelli fluo, i vestiti, la copertina, l’aria tra i Prodigy del ’94 e le band nu metal più laterali del 2002 si sposano così male con l’intensità del disco (di un quarto disco) che, alla fine questa dissonanza aggiunge un certo peso.
A livello di classifiche ho ragionato su un ipotetico confronto tra il primo semestre di un anno (come questo) e il secondo semestre. Una di quelle competizioni tipo All Star Game, nella sostanza inutili come l’All Star Game e, se può interessare, qui sotto vince il secondo semestre ma senza stracciare il primo. Un 9 a 6 che è più equilibrato del previsto, dato che io sono sempre a dire che ci scordiamo le cose belle troppo in fretta.
A livello di serie TV, già che siamo a dire le cose belle di quest’anno, per me vince a mani basse la serie sui Menendez per qualche milione di motivi, tipo quel quinto episodio di 33 minuti in unico piano sequenza, telecamera posizionata fissa, in lentissimissimo zoom.
Top 15 Album
1. Fontaines D.C., “Romance”
Non è una scelta originale, ok. Comunque per me questo disco rappresenta una mezza sorpresa. “Skinty Fia” mi era piaciuto meno dei primi due e poi non mi ha entusiasmato l’album solista di Grian Chatten. Poi sono arrivati i singoli di “Romance” e mi è sembrato di cogliere una sana voglia di sterzare, pur nell’evidente accessibilità di queste canzoni. Mi si perdoni ma in “Starburster” ci sento un approccio parente dei Beastie Boys di “So Wat’Cha Want” e questo già basterebbe a farne il disco dell’anno.
2. The Cure, “Songs Of A Lost World”
Una sorpresa anche questo, per quanto possa essere una sorpresa un lavoro che è Cure al 100%. Dopo lo scialbo ultimo disco e i 16 anni di attesa che riducevano progressivamente le aspettative anziché aumentarle, eccolo qui. Ora, non raggiunge i vertici più inarrivabili della carriera di Robert Smith ma riesce lo stesso a trovare un posto dignitosissimo nella discografia dei Cure. Ho detto dei Cure, non so se la cosa è chiara, eh.
3. Royel Otis, “Pratts &Pain (It Aint Over Til It Ends Edition)
Ho evidenziato il titolo esteso perché questa edizione qui (la terza, precisamente), uscita diversi mesi dopo la prima è la più ricca e completa. C’è un procedere alla Kanye West, insomma, con un materiale che muta e cresce. Poi le analogie con Kanye finiscono comunque qui, eh. Come ormai si sa, Royel Otis è un duo australiano che fa canzoni tanto strutturate sulla sei corde quanto pop. E, sì, quell’assetto in divenire che dicevo fa convergere molta attenzione e curiosità su di loro e sulle future sembianze.
4. Thus Love, “All Pleasure”
Forse “All Pleasure” non raggiunge il livello del disco d’esordio (“Memorial”, 2022) che aveva singoli sostanzialmente perfetti. Però il livello della band della sperduta Brattleboro resta altissimo. La formazione a tre era più funzionale ad un suono smithsiano che adesso lascia un po’ il posto ad un approccio glam rock. Anyway, avercene di dischi così. E di cantanti e performers come Echo Mars.
5. Kendrick Lamar, “GNX”
Kendrick arriva verso la fine dell’anno e si porta via una menzione d’onore in quasi tutte le poll. Soprattutto arriva all’improvviso (ma lui già lo sappiamo che lo fa) e a dispetto di tutti questi dischi iperanticipati (nell’era delle singole visualizzazioni è la prassi), alla sua maniera, ti sputa addosso tre quarti d’ora di musica nuova. E il livello è sempre il suo, in una costruzione eterogenea, accessibile ma anche in linea con il riferimento socio-culturale che ormai Kendrick Lamar sa essere.
6. Jamie XX, “In Waves”
A differenza della posizione che lo precede, questo è uno di quei lavori iperanticipati che quando finalmente escono generano un po’ quella sensazione di eccessivo comfort. A cui, tra l’altro, fa seguito l’affermazione: “eh, quelle belle erano i singoli”. Ma superato lo script e relativi rituali, se si ha la pazienza di rileggerlo si capisce di avere a che fare con un altro disco che se la può giocare con il bellissimo “In Colours” (2015). Gli anni passano, l’hype pure, inesorabiilmente. Ma è difficile trovare qualcosa veramente fuori posto qui dentro.
7. Real Estate, “Daniel”
Questo “piccolo”, preziosissimo disco artigianale ed esperto (in senso buono) regala una manciata di canzoni che lasciano il segno. Qui non ci sono intenti bellicosi, nel senso che non c’è la volontà di sovvertire le regole ma l’impatto è forte, forse proprio per lo sbilanciamento tra la semplicità dell’approccio e la ricchezza del risultato. “Daniel” ha conquistato molti di noi perché sgorga come l’acqua di una fonte.
8. MGMT, “Loss Of Life”
Come già scritto da queste parti, “Loss Of Life” è il disco più intimista della carriera del duo, al quinto disco e già vicini al ventesimo anno di carriera. Come accade per molti buoni lavori dei primi mesi di un anno, anche questo ha rischiato di finire nell’oblio della stagione delle poll. Invece ne celebro il valore (forse è cresciuto nel tempo) grazie a quanto di psichedelico, dinamico e inusuale permane in un disco dall’apparenza placida e mansueta.
9. Kaytranada, “Timeless”
Dire che qui c’è un’altra vittima dell’oblio regge fino a un certo punto. “Timeless” è uscito a giugno e i dischi di giugno, in genere, tengono. Allora se non vediamo spesso l’immagine frontale e buia di Louis Kevin Celestin nelle classifiche del 2024 dipende dal fatto che oggi, con tre album, diversi singoli e tantissime produzioni è diventato molto simile a se stesso. Poi, il fatto che questo possa essere per molti un difetto non mi trova d’accordo. Qui infatti mette il suo timbro dall’inizio alla fine in un disco zeppo di ospiti di personalità.
10. SOPHIE, “Self Titled”
Ok, tra tanti dischi nitidamente belli, questo è su molti piani un lavoro più ambiguo di altri. È ovviamente un lavoro postumo (Sophie è morta ormai quattro anni fa) e come tale rende difficile individuare il confine tra l’artista che l’ha avviato e il lavorio delle mani (e voci) che vi sono state posate sopra. Però è un disco con qualche instant classic. E soprattutto è un lavoro che a tratti stordisce per effetto di un contrasto palpabile tra bellezza incondizionata e amarezza profonda.
11. The Smile, “Cutouts”
Ma non si riuniscono i Radiohead? Un giorno sembra che sia plausibile e l’indomani la cosa viene negata con fermezza. In ogni caso, il progetto “The Smile” è un dato di fatto, sebbene per il sottoscritto sia stata a lungo una cosa da “bello ma non ci vivrei”. Nel senso che ovviamente non vivrei in un mondo alternativo che ha avuto gli Smile e non i Radiohead ma questo penso sia comune. Ecco, la cosa piacevole è che questo disco di (apparenti) tagli trova una quadra a cui gli altri due dischi secondo me non arrivavano: più asciutto, più intenso e con quella disomogeneità che conquista.
12. Cindy Lee, “Diamond Jubilee”
Ammetto che “Diamond Jubilee” non è il genere di album che di solito metto tra i miei primi 10 o 20 dischi dell’anno. Fondamentalmente perché a un ascolto distratto verrei difficilmente uncinato da un approccio così scarno. E invece Cindy Lee/Patrick Flegel mostra tutto il suo fascino tra le pieghe di un disco più sfaccettato, multiforme e ricco di quel che dà a vedere. Un po’ come la storia di Patrick, dai Women (dalle cui ceneri nasceranno i Viet Cong) in poi, assurda, amara, romantica e imprevedibile.
13. Charli XCX, “Brat”
Questo, con la sua copertina verde e minimalista è senza di dubbio il disco capace di star bene ovunque, lungo il corso dell’anno. Ovunque nel senso che è un disco pop che trova lodi in ambienti poco affezionati al pop ultracontemporaneo (come “Brat” sa in realtà essere). Poi, se ci pensiamo, questa è la cifra di Charli XCX dai tempi di “Nuclear Seasons” in poi, con tutto quel che c’è stato nel mezzo. Io credo che Charlotte abbia piegato più barriere di quel che sembra.
14. Rahim Redcar, “Hopecore”
La nuova “pelle” di chi conoscevamo come Christine And The Queens è affascinante quanto spiazzante. “Hopecore” è un disco meno barocco, meno scolpito dei precedenti. Ha una patina electro-wave che sottende un disco diretto, con melodie killer e un assetto sonoro da demo. Aspetto, quest’ultimo che si sposa con l’intento di mettere in primo piano un nucleo e togliere una sovrastruttura. L’ho scritto e lo ribadisco ora che siamo a tirar le somme: un lavoro minuto quanto sorprendente.
15. Tyler The Creator, “Chromakopia”
Non è bello come “Igor” ma colpisce, in primis per l’impatto di alcune tracce. E poi c’è tutto un apparato estetico-concettuale (a volte ridondante) che lo rende un disco non banale. I temi della famiglia, dell’identità (personale prima ancora che musicale), della maternità e tanto altro sono affrontati in modo caotico ma apparentemente sincero. C’è meno “caricatura” del solito (non che la “maschera” manchi) e questo va insieme ad un suono che vuole essere imponente come il concept del disco. Quando ci riesce è notevole.
E poi ce ne sarebbero davvero tantissimi di album degni di nota. Cito tra gli altri i lavori di NxWorries, GIFT, Justice, A Place To Bury Strangers, Peggy Ghou, I Hate My Village, Beyoncé, La Femme, Toro y Moi, Il Quadro di Troisi.
La mia playlist del 2024
E questo è lo spazio per richiamare anche quei nomi che ho appena citato, così come tutti quelli che hanno fatto uscire canzoni più che album, oppure qualche perlina di traccia. Volevo che qui sotto ci fosse tanta roba ma non troppa. E il risultato è un po’ l’equivalente di un vecchio CD-R, con gli artisti scritti male e un titolo forzatamente supersimpa. E anche una bonus track dopo quello che sembrerebbe il finale più canonico.