Blood on the Tracks, pubblicato il 20/01/1975, è ampiamente considerato uno dei migliori album di Bob Dylan. Per il cantautore ha segnato un significativo ritorno, dopo l’opinabile Dylan, uscito nel 1973, e il buono ma poco centrato Planet Waves, pubblicato nel 1974, a un universo che sembrava perduto, rintracciabile a partire dal sound dell’album, che incorpora elementi di folk, rock e blues e abbandona certi svarioni da rock patinato e iperprodotto di poco tempo prima. Qui Dylan fonde i suoi testi poetici con temi personali che con forza tornano a colpire nel profondo.
La crisi matrimoniale e personale che attraversava in quel periodo hanno fatto pensare che da lì arrivasse l’ispirazione. Tempo dopo lui stesso smentirà. Dobbiamo credergli? Come non sentirsi coinvolti da brani come “Tangled Up in Blue” e “Shelter from the Storm”, pieni di quella narrativa disperazione che li pervade? Sono storie tessute intrecciando sacro e profano, dove la lotta e la sconfitta unite a temi universali più complessi risultano per forza di cose sempre coinvolgenti, affascinanti e spiazzanti per la loro naturalezza.
Blood on the Tracks ha svolto un ruolo cruciale nel rivitalizzare la carriera del cantante durante un periodo in cui alcuni critici avevano iniziato a mettere in dubbio la sua rilevanza. Al momento dell’uscita, infatti, l’accoglienza fu più calorosa da parte del pubblico che della critica, che reagì tiepidamente, ricredendosi invece nel corso dei decenni, quando venne rivalutato, forse perché interpretato e riletto all’interno di una visione più ampia della discografia dylaniana, continuando a essere celebrato e a essere inserito nelle liste dei migliori album di tutti i tempi.
L’influenza di questo disco sui cantautori successivi è stata enorme. Si pensi, in ultimo, a Ryan Adams, che lo ha riregistrato da cima a fondo. Inoltre i temi dell’album – l’amore, la perdita, la redenzione, tutti argomenti senza tempo – hanno fatto sì che “parlasse” anche alle nuove generazioni. Blood on the Tracks non è solo un album fondamentale nella carriera di Bob Dylan, ma anche un pezzo significativo della storia della musica. Il suo impatto e la sua eredità duratura ne sottolineano l’importanza, rendendolo un classico senza tempo che continua a ispirare e commuovere il pubblico di tutto il mondo. “Come in, she said, I’ll give you / Shelter from the storm”, canta in “Shelter from the Storm”. Come allora anche oggi un album del genere è un sicuro riparo dalle mille tempeste che ci circondano.
(Raffaele Concollato)
Quando il 20/01/1975 usciva per la Columbia Records Blood on the Tracks, uno dei capolavori assoluti di Bob Dylan all’interno di una carriera costellata di opere straordinarie, il cantautore futuro Premio Nobel stava vivendo un periodo burrascoso ma particolarmente ispirato. All’inizio dell’anno precedente era stato pubblicato Planet Waves, inciso con The Band, un concentrato di rock e di folk magnetico e coinvolgente che lo catapultava nuovamente al centro delle scene dopo alcuni anni nei quali aveva pubblicato dischi non così rilevanti e aveva tenuto pochissimi show. Tra il gennaio e il febbraio di quello stesso anno aveva attraversato Stati Uniti e Canada sempre al fianco di The Band per una tournée trionfale ed esplosiva celebrata sia dal pubblico che dalla critica. È nei mesi successivi a quest’avventura, mentre il suo matrimonio sta andando rapidamente in frantumi, che i brani che saranno contenuti in Blood on the Tracks prendono forma.
Nel settembre 1974 Bob Dylan entra negli A&R Studios di New York con l’intenzione di registrare un nuovo disco. Ha in mano una dozzina di canzoni scritte nei mesi precedenti e al suo fianco ci sono soltanto un bassista e un batterista. A questi strumenti si aggiungeranno solo in alcuni passaggi un organo e un pianoforte. Il cantautore esegue tutti i brani con una chitarra acustica accordata in Open D e in Open E. È un ritorno alle origini più tradizionali e minimaliste del folk cantautorale statunitense, in particolare a quello denso di immagini, di nomi e di luoghi che lui stesso aveva scolpito nel decennio precedente. A cambiare rispetto ai numerosi capolavori che aveva già inciso sono la tipologia delle narrazioni che percorrono i brani, che si fanno in molti casi estremamente intricate e tridimensionali, e anche l’intepretazione vocale che li abita, intensa e magmatica quanto quella che in passato aveva costruito ma declinata in modi parzialmente differenti rispetto a quelli che avevano caratterizzato molti dei suoi dischi precedenti. Anche negli episodi nei quali l’impianto diegetico risulta piuttosto tradizionale si aprono squarci improvvisi e laceranti che spezzano la cronologica e quieta temporalità del racconto e spiazzano e stregano l’ascoltatore. Le rime raffinate, organizzate con perizia e con originalità, e la metrica infondono ai brani una musicalità e un ritmo che sono in grado di trascendere le melodie stesse, riempiendole e completandole.
Con queste premesse e con questo approccio tra il 16 e il 19 settembre del ’74 vengono incise una dozzina di nuovi pezzi e una cover. A quel punto, quando il disco è pronto per essere pubblicato, qualcosa di inaspettato accade. Bob fa ascoltare una test pressing al fratello a Minneapolis mentre i due si trovano lì per le vacanze natalizie. Quest’ultimo lo ritiene troppo monotono per via dei pochi strumenti presenti e per il fatto che tutte le canzoni sono eseguite da Bob con un’accordatura aperta di chitarra. A quel punto il cantautore decide di registrare nuovamente alcuni dei brani presso lo Studio 80 di Minneapolis con un gruppo di musicisti locali radunati per l’occasione. L’LP che uscirà di lì a pochi giorni conterrà cinque pezzi tratti dalle sessioni newyorchesi e cinque pezzi tratti da quelle tenutesi in Minnesota.
Non è facile analizzare e perlustrare l’odissea di note e di parole che è Blood on the Tracks, denso e stratificato come pochi altri dischi al mondo. La caotica e ammaliante “Tangled Up in Blue”, che apre l’album, è un biglietto da visita mozzafiato: in essa i punti di vista e i personaggi stessi si intersecano, si mescolano, si perdono e si ritrovano senza che sia più possibile, già dopo un minuto soltanto, capire esattamente chi sia chi e dove sia diretto. Con altrettanta raffinatezza e arte, nella straziante e malinconica “Simple Twist of Fate” i percorsi dei due protagonisti, che sono avvolti in un banco di nebbia che li rende maestosi e fragili al tempo stesso, diventano sin da subito difficili da seguire e da comprendere. Nel romantico cinismo di “You’re a Big Girl Now” spregiudicatezza e dolcezza si confondono, si dilatano e si conformano ai loro opposti. La rabbia più viscerale e scompigliata scorre nella torrenziale e verbosa “Idiot Wind”, mentre l’acquarello solo apparentemente gioioso che è “You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go”, che chiude il primo lato del disco, sorta di quiete che segue una tempesta e ne precede una nuova, nasconde un’ampia dose di tristezza appena alle spalle del cielo sereno che solo apparentemente dipinge. Sono poche le opere d’arte in cui i sentimenti umani sono stati sviscerati e analizzati con così tanta efficacia e sincerità.
La seconda parte del disco è altrettanto potente. Ad aprirla è il tagliente ed espressivo blues di “Meet Me in the Morning”, desolante soprattutto per come la voce di Dylan lo interpreta e declina, mentre il successivo western dalle sfumature noir che è “Lily, Rosemary and the Jack of Hearts”, nove minuti poetici pieni di tensione e di caos, è un folk vivace e claustrofobico dove ancora una volta nomi, luoghi e immagini si confondono e si fondono tra loro diventando idee, simboli e sillabe. “If You See Her, Say Hello” è la ballata più romantica e triste del disco, che nel dolore che trasmette e che esplora cerca disperatamente di trovare qualche segno di fiducia e di rinascita. L’ancestrale e melanconica “Shelter from the Storm” sembra una preghiera laica costruita intorno a continui salti tra il presente, il passato e il futuro, dove improvvise epifanie e inquietanti presagi si susseguono con delicata ostinazione. A chiudere il disco è l’accorata e misurata gemma “Buckets of Rain”, un secchio di tristezza in cui si immergono pochi flebili ma tenaci sprazzi di speranza.
Questi sono gli elementi che caratterizzano e levigano la complessità e la magnificenza di Blood on the Tracks, per il quale Dylan, per quanto concerne la tipologia di narrazioni, come anche per quelle che sarebbero state scritte per il disco successivo, Desire, fu forse ispirato dalle lezioni di pittura che aveva ricevuto qualche tempo prima, dopo che aveva deciso di ritornare a vivere a New York nel 1973, da Norman Raeben, pittore ebreo di origini est-europee, proprio come est-europee erano le origini degli antenati di Dylan. Dylan stesso, successivamente, volle rimarcare che il disco non era affatto autobiografico e che a stimolare la sua genesi furono alcuni racconti e pièce teatrali di Čechov.
Nel 2018 è uscito il quattordicesimo capitolo della Bootleg Series di Bob Dylan, intitolato More Blood, More Tracks, che è dedicato proprio alle sessioni d’incisione di Blood on the Tracks. Se delle canzoni incise a Minneapolis possediamo unicamente i take scelti per il disco e non ci è arrivata, purtroppo, alcuna versione alternativa, le sessioni newyorchesi ci sono invece giunte nella loro interezza. Alcune di queste tracce erano già state pubblicate precedentemente nei primi tre volumi della Bootleg Series, usciti in un cofanetto unico nel 1991, o nel box Biograph del 1985. Nelle versioni newyorchesi, così spoglie, rade e a tratti sconsolate, è affascinante rintracciare le piccole o grandi variazioni offerte dalle interpretazioni vocali di Dylan. Per chi scrive è proprio in queste sessioni che risiede la vera essenza, quella più intima e vitale, di Blood on the Tracks, un disco che è la rappresentazione più schietta e radicale di come si è lacerati e perturbati quando si sta passando da una fase a un’altra della propria vita.
Chiudiamo questo approfondimento notando che alcune delle canzoni di Blood on the Tracks, quando sono state eseguite dal vivo, hanno subito intriganti variazioni testuali, fatto che in piccola parte aveva già caratterizzato le sessioni di New York e di Minneapolis. Se “Tangled Up in Blue” nel corso dei decenni è stata puntellata con modifiche più o meno ampie fino a essere ricondotta quasi interamente al suo testo originario, se “Simple Twist of Fate” subiva ulteriori variazioni ancora qualche anno fa, se, al contrario, “You’re a Big Girl Now” e “Shelter from the Storm” non contenevano mai modificazioni nelle liriche, l’ultima e drammatica strofa di “If You See Her, Say Hello” è probabilmente l’esempio più estremo di una rara attitudine, poco frequente persino nel magma poetico dylaniano, che apre l’ennesima scatola cinese che Blood on the Tracks contiene, cioè l’idea secondo la quale alcune composizioni siano perennemente in divenire:
New York, NY, Stati Uniti, 18/09/1974: “Sundown, yellow moon, I replay the past / I know every scene by heart, they all went by so fast / If she’s passin’ back this way, I’m not that hard to find / Tell her she can look me up, if she’s got the time.”
Lakeland, FL, Stati Uniti, 18/04/1976: “Sundown, silver moon, hitting on the days / My head can’t understand no more what my heart can’t tolerate / But I know she’ll be back someday, about that there is no doubt / And when that moment comes, Lord, give me the strength to keep her out.”
Osaka, Giappone, 24/02/1978: “Sundown, yellow moon, I replay the past / I know every scene by heart, they all went by so fast / If she’s passin’ back this way, most likely I’ll be gone / But if I’m not just let her know it’s best that she stay gone.”
New York, NY, Stati Uniti, 20/10/1994: “Sundown, yellow moon, I replay the past / I know every scene by heart, they all went by so fast / If she’s passin’ back this way, I’m not that hard to find / Tell her she can look me up, if I’m still on her mind.”
Augusta, ME, Stati Uniti, 04/08/2002: “Sundown, yellow moon, I replay the past / I know every scene by heart, they all gone by so fast / If she’s passin’ back this way, and you know it could be quick / Please don’t mention her name to me, just the mention of her name makes me sick.”
Helsinki, Finlandia, 09/10/2003: “Sundown, yellow moon, I replay the past / I know every scene by heart, they all went by so fast / If she’s passin’ back this way, and I sure hope she don’t / Tell her she can look me up, I’ll either be here or I won’t.”
(Samuele Conficoni)
Blood on the Tracks di Bob Dylan è uno dei dischi che ha accompagnato costantemente la mia vita, scoperto grazie a una compagna di università e da lì mai più lasciato. A dirla tutta di quella ragazza sono stato innamorato (vanamente), e ciò aiuta a rendere “If You See Her, Say Hello” una testimonianza della grandezza dell’opera, con il testo della canzone scritto su un quaderno e che per anni mi legava al ricordo di lei, prima partita in Erasmus e dopo a dividersi tra Pisa e la natia Lecce. “Oh, whatever makes her happy / I won’t stand in the way / Though the bitter taste still lingers on / From the night I tried to make her stay” è di per sé emozione universale, ma quei ricami conclusivi di chitarra e mandolino sciolgono la neve e danno un brivido infinito, attestandosi al livello della musica classica: un gioiello folk che ricorda un Bolero al ralenti.
I festeggiamenti dei cinquant’anni di Blood on the Tracks hanno incontrato, destino vuole, la stessa data del Blue Monday 2025. Del resto la centralità e importanza del quindicesimo album in studio di Bob Dylan è lampante in quegli Anni Settanta in cui il panorama rock era dominato commercialmente dai Pink Floyd e qualitativamente da David Bowie e Neil Young ma era privo della forza melodica e circolare di Blood on the Tracks, anche se Neil un po’ ce l’ha.
È un lavoro in cui chiunque può identificarsi, magari più vicino alle radici della musica americana che all’innovazione e tuttavia capace di resistere all’usura del tempo – e di diventare senza tempo. In uno speciale realizzato da Stereogum sulle migliori canzoni di Dylan Geordie Greep dei Black Midi sceglie “Buckets of Rain” per il verso “Everything about you is bringing me misery”, evidenziando il senso di ilarità e devastazione che nasce in rapporto al precedente passaggio, “I like the cool way you look at me”. Un occhio è già al punk (e all’indie).
Un’ultima, non meno fondamentale, caratteristica che lo eleva sopra al resto della sua discografia è la bellezza delle performance vocali: dalla cupezza (post-joint?) di “Tangled Up in Blue” alla glorificazione di un amore salvifico in “Shelter from the Storm” passando per lo stile incisivo ed esasperato di “Idiot Wind”. Minimi i rimandi al decennio precedente – nel blues di “Meet Me in the Morning”, quasi stonesiano – e niente che verrà a parere mio replicato con la stessa originalità in futuro nell’interezza di un album. A eccezione di Time Out of Mind, pubblicato nel 1997 e che gli è valso un Grammy, che con l’altrettanto grandioso Blonde on Blonde (1966) metterei ai lati di un ideale podio dei dischi di Bob Dylan.
(Matteo Maioli)