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Essere custodi significa poter avere il privilegio di conservare pezzi di memoria, collegare fili logici che legano indissolubilmente l’umanità ai fatti, agli eventi.
“Everywhere at the end of time-stage 6” è una parte, una sezione di un’opera monumentale che da anni The Caretaker amplia, costruisce e riempie di significati. In questa opera omnia c’è la rappresentazione della costruzione di una memoria e il significato del ricordo nell’attualità.
Science Faction oggi parlerà della memoria e delle sue falle, tutto questo tramite l’analisi di un’opera e in particolare di un ultimo atto criptico e complicato, che è difficile condensare e spiegare.
La demenza o l’Alzheimer sono un pellegrinaggio controverso verso ciò che più nega la funzione del ricordo: l’oblio.
“Everywhere at the end of time-stage 6” è pieno di suoni, fruscii che lavorano in uno stato di coscienza in cui anche la comune nozione di tempo è impossibile da applicare.
Il territorio di azione è torbido: si lavora per sottrazione, per questo è bellissimo ascoltare Leyland Kirby, passo dopo passo, costruire e decostruire, continuamente, il senso di perdita, della sconfitta.
Nell’opera ci sono delle tappe che, come una sorta di biomarcatori utili a identificare il sopravanzare della malattia di Alzheimer, segnano la dimensione musicale di un artista che si è dedicato a qualcosa di unico, senza precedenti. Ogni passaggio è indicato con una minuziosa descrizione emotiva e didascalica che si riconnette ai suoni e al paesaggio sonoro di The Caretaker. Il viaggio è dantesco, tuttavia l’inferno è un punto d’arrivo e non di partenza, dove l’assordante silenzio, la mancanza totale di suono è il punto finale di una degenerazione emotiva e fisica.
La sesta parte di The Caretaker rappresenta un itinerario che prova a fare una specie di indagine sul significato del vuoto, del nulla.
Ogni ciclo dell’opera mescola suoni e volumi con una crescente in-consapevolezza dell’oblio. “Everywhere at the end of time-stage 6” è come un ippocampo, che come ricorda un editoriale su Nature: “has an outsized influence”, un fulcro che fa capire veramente la funzione dello studio, raccolta, opera, sinfonia, raccolta di suoni di The Caretaker.
Un saggio scritto su Crime Reads (portale di Lit Hub), da Lexie Elliot, ci offre una prospettiva che si adatta molto bene al lavoro di The Caretaker: “They are people living inside me, along with all the recollections that I do or don’t have, and I can’t say that they are any different to them. If I were to drift into the fog of Alzheimer’s, would they leave me first? I don’t think so. I think they are as solid as anything else in there. I like to think they wouldn’t desert me. They are part of my scaffolding. Like I said, I’ve been thinking a lot about memories lately”.
Capire il lavoro, nel suo complesso, è dunque una sfida che ci porta a riallacciare, riconnettere ogni singolo passaggio compiuto in vent’anni, l’opera di The Caretaker è una summa in cui si definisce il concetto stesso di memoria.
La rivista scientifica Nature, alcuni anni fa, precisamente nel 2004, aveva dedicato uno speciale ai 15 anni di studio per la malattia di Alzheimer. Oggi i progressi sono nebulosi e non sempre regolari: dalla possibilità, sfumata, di un ipotetico vaccino, fino alle nuove speranze in campo terapeutico.
>Il ricordo visto come momento costitutivo dell’essere umano: The Caretaker, nella sua sinfonia-indagine, ci offre una porta verso la ricerca, scientifica e anche in un certo senso spirituale.
Potete trovare l’edizione completa di Everywhere at The End of Time qui