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Lo scorso 13 marzo è stato pubblicato “Sixteen Oceans” (su Text Records), decimo album di quel genietto che è Kieran Hebden aka Four Tet, e alcuni hanno sottolineato il fatto che stia iniziando a ripetersi (media Metacritic ad oggi: 74) mentre per noi di Kalporz ha semplicemente sfoggiato la sua consueta classe nella materia elettronica. Però, visto che siamo arrivati a un numero considerevole di album, abbiamo pensato che è importante anche ripercorrere l’epopea del producer inglese fino ad oggi in 7 tracce che abbiamo individuato come importanti. Buona lettura.
7. “Smile Around The Face”, da “Everything Ecstatic” (2005)
Se Four Tet è uno tra i primi frammentatori dell’elettronica, sincopando e spezzettando i ritmi in una logica di collage che verrà esasperata nella pc music degli Anni Dieci, “Smile Around The Face” è ancora un esempio di quel vecchio pop elettronico “à la Röyksopp” che era una cifra stilistica della prima parte dello scorso decennio. Il “sorriso sulla faccia” in questo caso è quasi come un risveglio mattutino, il flauto campionato rimanda ai fischi di un qualche usignolo che scorgiamo dalla nostra finestra e, insomma, “va tutto bene”, citando sempre Four Tet. Ecco perché di questa canzone ce n’è sempre bisogno. (Paolo Bardelli)
6. “Pyramid”, da “Pink” (2012)
Nel 2012 Four Tet interrompe il suo rapporto con la Domino, la label con la quale in nove anni ha pubblicato quel poker d’assi che è “Pause” – “Rounds” – “Everything Ecstatic” – “There Is A Love In You”. Si apre un nuovo capitolo nella carriera di Hebdan, contraddistinto da un’esplorazione più decisa nei territori della club music e dell’house, e “Pink” è l’album che ha l’arduo compito di rappresentarne la nuova pagina. Dentro quel disco, pubblicato con la sua personale Text Records, finiscono tracce già precedente pubblicate qua e là (una con l’amico Daphni/Caribou, un’altra che ha esordito poco prima in un suo mix per il Fabric di Londra). Di tutti e otto i pezzi presenti, “Pyramid” è quello più accessibile e spontaneo, probabilmente il più rappresentativo dell’album per come mostra la sua capacità di attingere ispirazioni a partire da repertori vastissimi e apparentemente lontani tra loro: su un loop lavorato a partire da un sample di Jennifer Lopez Hebdan costruisce una struttura avvolgente che mescola e alterna bassi rotondi presi dal repertorio dell’house music con momenti più ambient, in cui una marimba disegna atmosfere soleggiate e scintillanti. In poche parole, quasi tutto il Four Tet che possiamo conoscere. (Enrico Stradi)
5. “Moth”, da Burial & Four Tet, “Moth / Wolf Cub” (2009)
Che Burial sia Kode9, Four Tet, un progetto collaborativo dei due con Thom Yorke poco importa. A noi è sempre piaciuto credere nell’esistenza di Burial e il primo progetto collaborativo ufficialmente fuori come release a nome Burial & Four Tet ha il merito di immortalare questa traccia che potrebbe tranquillamente essere stata scritta oggi con le sue suggestioni dance rigorosamente UK, fumose e oscure, momenti garage che Hebden non ha mai disdegnato.
Nove minuti che raccontano nel migliore dei modi l’underground elettronico londinese degli ultimi due decenni, con il tocco levigato e adulto di un producer eclettico e sempre aggiornato come Four Tet. (Piero Merola)
4. “Two Thousand and Seventeen”, da “New Energy” (2017)
Difficile scegliere una traccia per rappresentare il Four Tet di “New Energy”. L’album, riascoltato a tre anni di distanza, rende bene l’idea di ottima forma compositiva in cui si trovava nel 2017 Kieran Hebden, e l’ultimo lavoro uscito pochi giorni fa sembra godere ancora dell’influenza di questo periodo di grande ispirazione. Tante le tracce bellissime in questo ibrido tra esperimenti da club e ambient da meditazione, come ci aveva abituato fin dai tempi di “Rounds”, ma ora il tutto suona più adulto, consapevole e personale. Il loop vocale ipnotico di “Daughter”, i droni di “You Are Loved” ed altri grandi momenti sonori costituiscono gli highlight del disco, ma il vero gioiello è “Two Thousand and Seventeen”, incastonata ad inizio tracklist, il corrispettivo di “Unspoken” in “New Energy”. La sacralità del pizzico delle corde campionate dal paroliere devozionale indù Hari Om Sharan, un pattern elettronico che si ripete aiutandoci a rallentare la respirazione, un ultimo momento di raccoglimento prima dell’oscurità di “LA Trance”. Se ad oggi è la traccia di Four Tet con più ascolti su Spotify, con 10 milioni di play di distacco sulla seconda, un motivo ci sarà. La calma che riesce ad infonderci Heben con le sue scelte sonore serve ora più che mai. (Stefano D. Ottavio)
3. “Everything Is Alright”, da “Pause” (2001)
Non è il primo disco in assoluto, perché l’esordio è “Output” del 1999, ma è con “Pause” che il progetto Four Tet di Kieran Hebden prende finalmente consistenza, forma e sostanza. Elettronica e folk, jazz e arpeggiatori, analogico e digitale: dentro quel disco confluiscono molti dei suoni nei quali Hebden si è cimentato fino a quel momento e che contraddistingueranno buona parte delle sue future produzioni – dal post-rock suonato insieme alla band formata nel periodo adolescenziale (i Fridge) alle sperimentazioni con i remix di Aphex Twin, fino all’EP “Thirtysixtwentyfive” (1998) contraddistinto da atmosfere downtempo. Il sound che esce da “Pause” è talmente innovativo che i magazine di critica di allora per descriverlo coniano un nuovo termine, folktronica: un mix in cui trovano spazio chitarre acustiche e loop di percussioni, beat caldissimi e inserti al piano, arpeggiatori e bonghi, registrazioni analogiche di moscerini e campanelle scintillanti. Dentro alle composizioni di “Pause” ci si potrebbe sentire tanto Dj Shadow quanto i Boards Of Canada, ma la verità è che tutto quello che si sente è puro stile Four Tet: un’ipnosi costruita layer dopo layer, loop dopo loop, in cui ogni elementi apparentemente distanti si avvicinano e si fondono in maniera inedita, sorprendente e ispirata. “Everything Is Alright” è solo una delle tracce più rappresentative di quello stato di grazia che ancora oggi, a distanza di quasi vent’anni, è molto lontano dall’esaurirsi. (Enrico Stradi)
2. “Love Cry”, da “There is Love in You” (2010)
Un inno house nel disco della svolta di Kieran Hebden. È questo, in due parole, “Love Cry”.
Nove minuti in crescendo con la cassa che incalza colpo su colpo sotto il refrain che dà il titolo al brano. Si muove, così, verso il dancefloor, il suono folktronico che all’inizio del secolo aveva fatto conoscere al mondo il produttore britannico, abile nel disegnare delicate atmosfere introspettive, così come nel fare proprie le esigenze della club culture.
È il 2010 quando esce “There is Love in You”, e “Love Cry” è il singolo che apre la strada all’album facendo passare forte e chiaro il messaggio già filtrato nel 2008 con la pubblicazione dell’Ep “Ringer”: la svolta verso la cassa in quattro è compiuta, ma senza dimenticare le origini. (Tommaso Artioli)
1. “Unspoken”, da “Rounds” (2003)
Probabilmente il brano che meglio riassume la grandezza di Kieran Hebden: riuscire ad essere tremendamente intimista ed analogico, attraverso un medium digitale.
Mi è sempre sembrato un pezzo che provasse a concentrare tutta una vita in 10 minuti. Se viene facile immaginare il beat come un ipotetico battito cardiaco, l’ossigeno arriva sicuramente dal motif di piano.
Attorno a queste due cose essenziali succede un po’ di tutto, in un crescendo continuo che porta pian piano alla vera e propria cacofonia. Decine di tracce audio diverse avvinghiano l’ascoltatore e lo trascinano in un universo sonoro caotico, che Hebden riesce a rendere in qualche modo rassicurante.
“Unspoken” è il risultato delle pennellate di uno dei migliori produttori degli ultimi 20 anni, in un momento di assoluto stato di grazia. (Carmine D’Amico)