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My gift to you
is that I’m not you
-Duane Michals
Duane Michals è nato a Mac Keesport, in Pennsylvania, nel 1932, da una famiglia di origine ceka.
Da ragazzo studia arte e si interessa in particolare al surrealismo. Adora Magritte, Balthus e De Chirico, che influenzeranno fortemente il suo progetto artistico.
E’ buffo (e inconsueto) pensare che qualche anno più tardi, all’inizio della sua notorietà, realizzerà una serie di fantastici ritratti di questi suoi idoli, fra i quali spicca proprio quello di René Magritte.
Arriva alla fotografia abbastanza casualmente, dopo essersi occupato di design e di danza contemporanea, quando il gruppo Time-Life (per il quale lavora) lo invia per tre settimane in Russia.
Siamo nel 1958, Michals ha con sé una vecchia Agus C3 con la quale scatta soprattutto foto di bambini e marinai, soldati e impiegati statali. Questa esperienza cambia radicalmente la sua vita e al ritorno in America si stabilisce a New York e si dedica totalmente alla fotografia.
Durante la prima parte della sua carriera, collateralmente al lavoro commerciale e pubblicitario per il quale è apprezzato, e ai numerosi ritratti su New York Times, Vogue, Esquire, e altre riviste, che lo rendono molto noto, continua ad elaborare una sua filosofia interna, un collegamento intellettuale con l’idea di fotografia, tecnicamente raffinata ma “esposta” in modo emozionale, che lo porta ad esaminare e fotografare i luoghi pubblici, intesi come punti che “recano ancora impresso il marchio indelebile della gente che li ha occupati”.
E’ dalla metà degli anni ’60 che iniziano le serie “narrative”, le sequenze, a volte paradossali, a volte intrise di razionale stupore o di considerazione per il “possibile” miracolo, ognuna dedicata ad una tematica quale il desiderio, il tempo, la giovinezza, la religione, il potere devastante della TV, la morte…
Le sequenze (alcune celeberrime) lasciano sull’osservatore, che al tempo stesso è “lettore”, uno strano senso di fascinazione, o di desiderio di entrare in quel minimo spazio che si coglie non narrato non definito, quasi uno spiraglio lasciato appositamente aperto nel quale insinuarsi con il dubbio, con un’ulteriore curiosità.
Come dice Michel Foucault nell’introduzione alla grande retrospettiva parigina di Michals del 1982 : “ mi muovono all’indiscrezione, mi fanno venire voglia di parlarne, quasi di cercare un diverso senso a qualcosa che non può essere comunicato […] mi attraggono come Esperienze. Esperienze vissute da lui ma che, per una via incomprensibile, sembrano rivolte a me che guardo (a chiunque guardi) evocando piacere, angoscia, sentimenti, cose che in qualche modo “ho già provato” o che posso immaginare di provare un giorno futuro”
Da un certo momento in poi Michals comincia a presentare le sue foto con lunghe serie di parole e testi scritti a mano con inchiostro di china sulla stessa fotografia, anzi sul bordo bianco inferiore all’immagine. Originariamente il senso di questi testi era quello di spiegare o integrare la comprensione dell’immagine ma in seguito, e sempre di più, il testo è diventato predominante. Fino al punto, in qualche caso, di sostituire totalmente l’immagine.
Non riusciamo esattamente a immaginare da dove vengano queste riflessioni e nemmeno cosa Michals abbia in mente mentre scrive queste che sembrano a volte essere delle rese dei conti con l’esistenza (A Letter From My Father), o delle riflessioni sull’esterno del mondo (quello che non è nella foto).
Insomma un modo di raccontare storie, un agente narrativo che imposta l’immagine come motore per attivare un gioco, un mini-labirinto di segni dentro i quali nasconde un’unica narrazione, sempre in evoluzione.
Quando vivevo a New York avevo una coppia di amici, Louise e Ralph, che si occupavano di arte in vari modi, curando anche la pubblicazione di una rivista periodica di “Copy Art”. Abitavano nel west side di Manhattan (dove per un po’ di tempo ho abitato anch’io) e avevano una casa di campagna nel nord dello stato di New York, non lontana dalla famosa Woodstock.
Da quelle parti c’era una galleria che si occupava prevalentemente di fotografia. In realtà era un piccolo museo, non troppo illuminato ma con esposte cose bellissime. Al secondo piano, in mezzo ad un corridoio, tra una rientranza e l’altra del muro, c’era una piccola foto, chiaramente di Duane Michals, una di quelle con la piccola immagine e un lungo testo nella parte inferiore. Il testo era scritto con una calligrafia così minuta che dovetti abbassarmi e aguzzare la vista per leggerlo.
Era un lavoro straordinario, mi venne un improvviso, travolgente desiderio di averlo per me. C’era anche il prezzo: 250 dollari, un’inezia. Così andai a cercare l’ufficio di direzione della Galleria per chiedere se potevo acquistarlo. Nell’ufficio non c’era nessuno, la scrivania era piena di carte e cataloghi ma sembrava disabitata da tempo. Mentre ero lì in piedi chiedendomi cosa fare entrò nell’ufficio una donna, una signora molto anziana, molto alta, vestita di chiaro, con un curioso cappellino estivo sulle ventitré.
Mi chiese:
“Lei è il Responsabile ?”.
Risposi che no, non c’entravo niente, anzi, stavo proprio chiedendomi dove fosse il personale del museo, che sembrava deserto.
La signora mi chiese ancora:
“Le interessava qualcosa in particolare?”.
Dissi :
“Sì. Vorrei acquistare quella piccola foto di Duane Michals che è al secondo piano…”
“Anche lei !! Ma non è possibile! Io ci penso da anni ma stamattina ho sentito che dovevo sbrigarmi e che dovevo venire a prendermela per portarla con me in Italia prima che qualcuno mi precedesse..!!”
Ero interdetto. Dissi:
“..ha detto Italia?”
E lei:
“Si, ho comprato una casa vicino Roma e mi trasferisco lì..”
“Ma… io sono italiano!”.
“No! Ma è incredibile. Magari abita a Roma anche lei…?”
“No, ma ci sono nato e i miei genitori stanno ancora lì!! – dissi io ridendo – Dio… è notevole come serie di coincidenze, non trova?”
“No, guardi – disse lei – queste non sono coincidenze. Le coincidenze non esistono. Questa è Sincronicità!!”
Aspettammo ancora per un po’, chiacchierando smarriti e divertiti. Poi, visto che nessuno arrivava e si stava facendo tardi per tutti e due, riconoscemmo che la foto, in fondo, forse desiderava rimanere lì, e ci salutammo con vaghe promesse (mai realizzate, come spesso accade) di rivederci a Roma nel futuro.
La sera, dopo cena e dopo aver raccontato ai miei amici questa strana storia, me ne andai a dormire nel salottino dove era il divano letto per gli ospiti.
Quando ero già sdraiato, e la mia mente vagava un po’ dappertutto, mi accorsi di un particolare mai notato in quella stanza: c’era un impianto stereo in un angolo, con due piccoli altoparlanti e una raccolta di cassette ordinatamente impilate in un raccoglitore di plastica.
Mi venne voglia di dare un’occhiata alla musica che si ascoltava in quella casa.
Nella pila c’era un cassetta che sbucava un po’ fuori. La estrassi dal raccoglitore.
Era un album dei Police, il loro ultimo come gruppo: Synchronicity.
La copertina del disco è di Duane Michals.
(Marco Bucchieri)
Marco Bucchieri (Roma, 1952) è uno scrittore, poeta visivo e fotografo, attivo sulla scena artistica fin dagli anni ’70. Il suo lavoro si concentra su simbolismo e allegoria, attraverso la realizzazione di mostre, installazioni di poesia visiva, immagini di valenza concettuale, e libri. Attualmente abita in provincia di Bologna, dopo aver vissuto in molte città italiane, a Londra e a New York.
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