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È un momento storico in cui sono in minoranza tra i caporedattori con riferimento alla categoria “cantautore/trice con la chitarra”: in effetti capisco il loro punto di vista, veniamo da almeno vent’anni (e forse più, forse da sempre se pensiamo a Bob Dylan…) di proposte del genere e quindi un tale stile piuttosto standardizzato nel tempo verso un classico indie-pop può avere anche un po’ stancato, però – come sostengo sempre – quello che conta è, più che l’innovazione insita di un album, la bellezza delle sue canzoni. E se l’artista in questione è riuscito a comunicare, a registrare il suo io più recondito e finanche a raggiungere gli obiettivi che si era prefissato, tutto ciò si coglie sempre.
Per il secondo album di Anna Burch è accaduto così: “Quit the Curse” (2018), il primo album della cantautrice di Detroit, era come un inno fanciullesco di gioia al mondo, e ora è come se Burch iniziasse a indagarlo, quel mondo, e a trovarne anche le pecche. Ha avuto insomma una maturazione, quella in cui avevamo sperato nella chiusa della recensione di “Quit the Curse” (“Se Anna in futuro dirà addio alla sua innocenza, che in questa prima prova ci sta ed è finanche salvifica ma che non può durare in eterno, immergendosi in un suono più maturo e complesso, beh, ne vedremo ancora di più belle”), e ciò non può che essere salutato positivamente. Il suono si è fatto (un po’ più) stratificato, gli arrangiamenti godono di strumentazione più composita, merito della produzione di Sam Evian, lei – come ogni buon adulto – soffre d’insonnia (la iniziale “Can’t Sleep”, il titolo dell’album) e le tinte hanno virato, se non verso la malinconia (come in “Party’s Over”: “When the party is compulsory I start getting down… I’m so tired”), in direzione consapevolezza. È un perdere l’innocenza senza abbandonare i sogni che la caratterizzano, quelli no, la Burch non ci ha rinunciato e infatti ha arrangiato i pezzi con un andamento sognante, psichico (l’organo di “So I Can See”, la strumentale “Keep It Warm” suonata come in una bolla).
Ma la vera svolta dell’album, e che apre un mondo di prospettive, è il fatto che Anna abbia iniziato a comporre col pianoforte, e ne è esempio la bella e rilassata “Tell Me What’s True”, in cui il faro diventa l’ultima Weyes Blood, come abbiamo già scritto.
Un album quindi che, come il precedente, si fa volere bene per la scorrevolezza e il cuore buttato oltre le composizioni, e che migliora in focalizzazione. Anche se non raggiunge il massimo potenziale della cantautrice di Detroit, per quello ci sarà tempo: oggi vanno di moda “le cantautrici con il pianoforte” invece che quelle “con la chitarra”, e lei – se continuerà nella svolta di “Tell Me What’s True” – potrebbe iniziarne a far parte.
72/100
(Paolo Bardelli)