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Siamo sempre stati attenti alla produzione di Russo Amorale, un chansonnier franco-italiano, oramai per fortuna più italiano, che ha da qualche anno portato avanti il suo discorso personalissimo di un linguaggio in bilico tra l’aulico e lo slang, come si nota anche dal titolo del suo primo album, “Europe”, che si può leggere sia all’inglese sia come Europa al plurale, una specie di calembour, insomma. Siamo quindi andati ad analizzare proprio la sua peculiarità linguistica.
( Russo Amorale – “Europe”) Né una biografia, né una recensione, ma un gioioso epitaffio.
Dico che Russo Amorale – alias Ugo Russo – è felicemente trapassato strappandosi dalla pelle queste dieci tracce (+ bonus track) che sono il compendio preciso e scientifico dei suoi ultimi cinque anni in Italia e sulla terra. Io lo so, mi sembra quasi di conoscerlo. Privandosi dei suoi ricordi e nettando per bene le sue ferite ha cambiato la sua seconda o terza pelle, e ora quello che rimane è qualcosa che è di là da venire (e al momento non ci interessa, perché sta scrivendo altre canzoni in cantina). La sua fortunata muta è quindi esposta qui, in queste dieci tappe, dieci sepolcri, che ha aperto perché noi visitatori potessimo ammirare quello che c’è dentro. Tutte quello che troverete sono attimi celati in una goccia d’ambra fatti canzone.
Dalla prima all’ultima riga di questa “Europe”, che sembra strangolata in culla dagli egoismi e dagli avvelenatori, regna sovrana la presenza di una donna. Quell’“Arenata Regina” (che trovate all’inizio della seconda traccia), ossessione d’amore e vino triste, segue questo cantautore francese di origine e italiano per simpatia ed emigrazione e lo bracca, ficcandogli un tagliacarte tra le scapole fin dalla disperata fuga nel deserto americano di Wildfires, il gas station blues che introduce l’album, un po’ Paris–Texas, e un po’ Zabrinskie Point, tra serpenti a sonagli e drink assassinati da mosche insolenti.
Da Reggio Emilia a Bologna e da Bologna a Reggio Emilia, la transumanza di Russo Amorale è un pellegrinaggio sbilenco e circolare sulla scacchiera dei ricordi, in una “ultra Siberia” che è freddo interiore “ all’olio di milza” (lo Spleen) ma anche ironia satireggiante, in una Bologna – dove il nostro vive ora in una quarantena al quadrato – affollata di amici inopportuni e maldestri che “fanno salotto a chilometro zero”. Lui stesso viene a noia a se stesso, talvolta, e gli applausi del pubblico pagante gli risuonano attorno come bicchieri che si infrangono a terra. E’ “l’emergenza di emergere” la seconda stazione di questa via crucis blues rock, ma guardate che è sempre l’assente Regina che lo assedia guardando in tralice il nostro menestrello intento a “cantare la sua miseria”; ormai « amour de lonh », declamato come un bardo provenzale confinato nel 2020.
Nei boulevards francesi cui ogni tanto gli tocca rincasare (“qui s’y frotte s’y pique”) – Russo Amorale non riesce a sottrarsi alla minaccia di “ un serpente in agguato”, ed è la “zingarella” – una sorta di moderna Esmeralda – che gli ha rifilato un tremendo incantesimo e ora non risponde al telefono. Ma come non rimanere affascinati da quel piccolo fotogramma di luce che ce la descrive ? “ Ti arriva il sole in un unico raggio sulla fronte, ti spettina pure; poi avvolgi e ricomponi il tuo mistero in un foulard”. Difficile sottrarsi ai brividi mentre la sua voce intreccia la slide guitar e l’armonica in un abbraccio d’amore privato del suo oggetto.
“Europe’’, canzone eponima. Europa è la cartina lacera che vedete sulla cover, tra Adria e Metz, la laguna Veneta e Nancy, un non luogo frutto di uno strappo e ricomposto in immagine, curioso paradosso visto che la città natale di Russo Amorale è semplicemente la Terra. Difficile non associarvi le foto di Luigi Ghirri della sua raccolta “Atlante”, dove la mappa diventa il territorio, la rappresentazione diventa protagonista, facendosi mondo dietro il mondo. Russo Amorale è esattamente questa cartina lacerata, e tra meridiani e paralleli, le sue coordinate artistiche ed espressive sono quanto di meglio possano avere prodotto Francia e Italia assieme, sotto il caldo mantello dei numi tutelari del rock e del blues angloamericano. Mark Lanegan e Tom Waits, Jeff Buckley e Nick Drake, in un orizzonte ove regnano le icone di Brassens, De André, Giovanni Lindo Ferretti e Marlene Kuntz, in una maionese mai impazzita di contaminazioni che hanno l’urgenza di allucinazioni imperative.
“Acque Torbide’’ è una breve short story che potrebbe aver scritto John Fante e Kent Haruf editato. Se c’è qualcosa che colpisce, oltre allo spessore del talento vocale non ordinario, è la “letteratura”. Russo Amorale è un cantante, ma anche un grande narratore. Acque torbide è la breve odissea notturna di alcuni amici, dai nomi tipicamente emiliani, che finiscono per perdersi in un locale seminato nella pianura pugnalata da capannoni industriali. Il pezzo snocciola una serie di descrizioni di volti e tipi umani che appaiono deformati dal sogno o da un incubo benevolo. Nel suo svolgersi il sogno sempre accompagnarci fino all’alba, finché in un finale che trovo entusiasmante, Russo Amorale riesce a cogliere l’impercettibile confine che separa due terre immaginarie che esistono solo nella mente dei poeti o degli ubriachi: “Ancora il vento portava singhiozzi di fanfara, di là, tra due capannoni mi scrutava già il mattino. Decisi di di darmi un poco alla macchia e, infine, sotto un tronco scovai il trattino che separa L’Emilia… e la Romagna”.
Come “Galileo’’ costretto all’abiura, Russo Amorale è di nuovo in ginocchio davanti alla ferale Regina che attraversa tutto il suo lavoro. E’ un esilio perenne quello che lo divide da una patria che non è mai esistita e dall’insoddisfatto desiderio di una donna che mostra come un trofeo il suo conturbante “spanish neck”. Quanta nebbia ha dovuto bere per lei, quanti cani pisciare per avere udienza ai suoi piedi? E come Nell’isola del Tesoro di Louis Stevenson, ventisette anni come ventisette marinai « on the dead man’s chest » si trascinano in questa nebbia insolente alla ricerca di un tesoro orami disperso in una mappa illeggibile.
“Ma l’amor mio non muore” è una severa condanna, perché stranamente e stupidamente – come sostiene Janette Winterson – è proprio la perdita la misura dell’amore. Il vessillo nero di questa certezza è ben conficcato tra le righe di questa traccia, che in una nuova virata linguistica ci conduce di nuovo in un orizzonte americano, con spazi che ricordando la traccia inziale Wildfires. Forse perché il deserto americano, che è deserto anche culturale benché fucina di suggestioni, è il correlativo soggettivo perfetto per esprimere lo spaesamento di Russo Amorale, un artista che solo perdendo tutto ha saputo costruire un album intero sul tema dell’assenza e della ricerca.
“Alberto Neri” è invece un ritratto umano di magica suggestione, non immaginato, reale. Chi lo conoscesse saprebbe benissimo cosa significhi il verso “sembrava un crocifisso rotto”, e cosa rechi il suo “fagotto”; è il bozzetto di un uomo aduso al vagabondaggio come certi saggi viaggiatori senza valigia, ben descritti da Hermann Hesse nei suoi racconti, che ha avuto la possibilità di nascere falena, essere attratto dalla luce viaggiando nell’ombra, diventando luce lui stesso per molti altri. È esilarante e commovente la rima “Alberto Neri profanava i cimiteri”, non solo utile allitterazione, ma fotografia perfetta di un corpo a corpo tra i vivi e i morti, che non si lasciano mai in pace, vicendevolmente (noi ricordiamo loro e loro ci assediano sfilando dalle maglie della rete troppo sottile che ci divide). Qui la traccia lo coglie in procinto di attaccare il cimitero Monumentale di Reggio Emilia, ed espugnarlo. Un vero gioiello di canzone, un affresco di un uomo che è il monumento alla vita che non è mai sazia di se stessa.
“In piedi, in piedi i morti!”: nella storia di tutti c’è un ritorno, solo immaginato, prima di dirsi addio. Ed è proprio ne “I ritorni’’ che Russo Amorale si avventura nel più sconsiderato dei propositi, ma è solo un pensiero impossibile, un ragionamento per assurdo. “Quod vides perisse, perditum ducas”, gli suggerirebbe Catullo, e Russo Amorale sa che non servirà nemmeno il nekronomicon a resuscitare l’amor suo che non muore. Sempre brillantemente sulla lama del paradosso, e con una teoria di immagini che sembrano provenire da una Corte dei Miracoli di Parigina ascendenza letteraria, il mento adorato della nostra Esmeralda è ormai, in un’immagine geniale, un Golgotha rovesciato, repellente a a baciarsi, un’altare sacrificale. E così sono i ritorni, appunto, impossibili e contro natura, il tema che innerva la vita di Europe, che non a caso è il diario intimo di un viaggiatore che, partendo, non è più in grado di capire da dove viene, né dove stia andando.
“Le mie vele’’ chiude Europe – la bonus track di Wildfires in inglese ne è una bellissima appendice extravagante – perché è salpando che Russo Amorale prende commiato. Commiato da questo splendido florilegio di passioni mai tristi, e di parole mai fuori posto e di chirurgica suggestione. Chi se ne va, e chi resta? Scriverebbe Montale. Il moto è relativo, dopo tutto, no? Io sto fermo, sei tu che ti allontani o è il contrario? “Le mie vele”, “le tue vele”..Sono due universi isola che si allontanano, lo spostamento verso il rosso dell’addio. Io credo che con questo pezzo Russo Amorale chiuda finalmente col suo passato, anche se il passato non è bravissimo a chiudere con noi. Ora che il letto degli amanti è un letto Procruste pieno di “sabbia” e quindi ormai deserto, è ora di sigillare con il sangue vivo dell’arte del ricordo questo struggente e affascinate lungo addio.
Plaudite, fabula acta est.
(Matteo Marconi)
foto di Maddalena Montanari