Share This Article
Zappa è stato, nella sua trentennale opera, simbolo feticcio e substrato del pensiero critico sulla deriva artistica del secondo novecento. Racchiudere in un singolo album il senso di una carriera che ha proposto una quarantina di titoli solo prendendo in considerazione gli album ufficiali è pura follia, e me ne rendo perfettamente conto.
Ciononostante prendere “Civilization Phaze III” a simbolo dello Zappa-pensiero acquista un valore ulteriore, dettato da determinate questioni. Innanzitutto è un album uscito dopo la morte dell’autore ed è, come gli ultimi esperimenti zappiani, composto interamente da brani strumentali elettronici: già solo questo fattore permette un ragionamento fondamentale. La disumanizzazione ricercata con assidua coerenza dall’ultimo Zappa raggiunge il suo apice concettuale, proponendosi non solo come ricreazione totale della realtà oggettiva – ricreazione dettata dalla negazione del fattore umano nella sua esecuzione – ma anche e soprattutto come elemento dotato dell’immortalità propria della materialità: “Civilization Phaze III” è un album che va oltre la stessa vita del proprio autore (purtroppo, viene naturale aggiungere).
Da sempre considerato come uno dei massimi autori del postmoderno musicale, Zappa non si smentisce tornando a lavorare anche sulla propria storia; dalle sessions di album come “We’re Only in it for the Money” arrivano stralci di dialoghi, vocine, frasi sconnesse usate come interazioni. Piazzati in un contesto completamente diverso da quelli per i quali erano stati creati (Zappa autore poliedrico e adatto al mimetismo come pochi, capace di spaziare dal pop all’hard rock all’opera fino ad essere ridicolmente scambiato per compositore prog) questi istanti vanno ad acuire ulteriormente la considerazione postmoderna, in un patchwork autoriflessivo che ne ricrea continuamente gli umori e ne ristabilisce le forme.
Lo strumento scelto per attuare questa ricostruzione attiva della realtà è il synclavier, sintetizzatore digitale erede del DDS, creato nel 1977 per permettere una manipolazione della macchina/musica in tempo reale e diventato simbolo della plastificazione pop degli anni ’80. Zappa lo utilizza non come elemento aggiunto alla struttura musicale ma come elemento unico ed essenziale. In un’epoca in cui la rilettura dei propri codici e dei prodromi della propria esistenza ha acquistato una forza critica fino a poco tempo prima sconosciuta, non ha più senso affidarsi alla carnalità e al calore dello strumento asservito all’uomo – figura fallace, tentativo di imitare la vita nell’arte che non ha prodotto quanto si sperava – ma c’è bisogno di un uomo asservito alla macchina, unica vera ipotesi possibile di iper-realtà, (ri)composizione della vita e sua riscrittura totale. I “simulacri di terzo ordine” che Baudrillard citava nella sua teoria sociologica acquistano una corporalità nella storia della musica.
L’album è diviso in due cd, per un totale di 41 tracce: il primo è interamente suonato al synclavier, mentre il secondo propone intrusioni orchestrali affidate alla Ensemble Modern. Nel primo cd c’è forse il brano che meglio sintetizza le intenzioni di Zappa e la sua riflessione sull’uso dei materiali: “N-Lite” nella sua anarchia strutturale supera di netto sia la dimensione tecnocratica del synclavier sia la componente umana alla base del tutto, riproducendo per i diciotto minuti di durata del pezzo una serie di suoni assolutamente credibili come reali, diretti, non filtrati dalla macchina ma allo stesso tempo questa sequela di suoni – quasi microrganismi in continuo contatto fra di loro – è assolutamente priva di imperfezioni, risultando dunque assolutamente al di sopra di qualsiasi esecuzione “umana”. Il brano accosta, a poliritmie e a digressioni che vanno da Varèse (il flauto di apertura) a Messiaen passando per sfuriate improvvise, una serie di effetti “acquatici”, decisamente liquidi, oltre a riverberi cosmici e vocalizzi improvvisi quanto spiazzanti, per chiudersi sul colpo secco di un triangolo seguito da un fragoroso tuono. Una composizione che è accostabile, oltre che a Baudrillard, alla rilettura della società dello spettacolo di Guy Debord: musica in perenne movimento ed evoluzione ma al contempo statica e immateriale.
Anche il secondo cd, accanto a improvvisazioni, cut-up, montaggi improvvisi, presenza una composizione di altissimo livello concettuale. “Dio fa”, al contrario di “N-Lite” non si pone come un’autoriflessione sul senso dell’arte e sulla necessità di creare il reale dal nulla, ma come una rilettura metallica e riverberata della musica sacra; musica sacra ricreata dai vocalizzi animaleschi reiterati che ne formano la base ritmica e dagli studi sull’avanguardia elettronica che ne costituiscono l’essenza. Rispetto al resto dei brani qui si intuisce anche la ricerca di una forma più classica, addirittura con l’ipotesi di un crescendo finale, dato dalla dilatazione improvvisa dei suoni.
Uomo “infedele” per eccellenza – nella sua accezione più estesa, chiaramente -, Zappa sembra quasi rileggere personalmente la mistica religiosa come elemento proprio dell’arte, spogliandola di ogni accezione ideologica e riducendola a forma plasmabile e, dunque, completamente riscrivibile. Senso ultimo di un album che è, al di là di qualsiasi preconcetto sulle ultime composizioni dell’autore, un capolavoro di splendente grandezza. Ed è, inoltre, uno dei più grandi saggi pratici sulla concezione postmoderna dell’arte che si sia avuto modo di conoscere: alla fine dell’ascolto di “Civilization Phaze III” – ascolto difficile, stancante, a tratti quasi impossibile – appare ovvio inserire Francesco Zappa tra i più grandi esponenti dell’avanguardia del novecento, accanto a John Cage, Edgar Varèse e compagnia bella. Ultima, doverosa, avvertenza: se credete di ascoltare qui lo Zappa di “Freak Out!” o di “Hot Rats”, tanto per citare altri due dei suoi capolavori, allora astenetevi dal comprarlo. L’incontro con quest’opera colossale sarebbe sicuramente sprecato.