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Diciamole tutte nella prima frase, le parolacce. Così saremo in grado di lasciarcele alle spalle da subito, e svuotarle di significato: post-rock. Cinematico.
Parole che sono in grado di descrivere perfettamente il suono degli Yellow Capra, ma che si possono applicare a un disco come “Chez Dédé” solo a mente fredda: perché, mentre scorrono le sue dodici tracce, non si trovano che piccole tracce delle paludi in cui il genere è andato ad impantanarsi.
Qui, piuttosto, si respira la stessa aria incantata dei primi album dei Rachel’s, dove le circolarità post assottigliavano i confini della musica classica per creare un inedito rock da camera. Eppure, mentre gli statunitensi sposavano sempre più la causa del minimalismo, esaurendosi, gli Yellow Capra vanno oltre: in “Califoggia”, ad esempio, gli studi classici del settetto emergono più che altrove, con quel violoncello così drammatico; ma come si pensa di aver ingabbiato il brano, quello sfugge, si fa ansioso, dissonante, e compare perfino un loop vocale ad attraversarlo.
Tutta la tecnica necessaria alla musica classica e al – eccola, l’altra parolaccia – prog, in “Chez Dédé” diventano strumenti fluidi, dove i generi trascolorano l’uno nell’altro senza strappi: non c’è alcuno stacco dalle sincopi di basso, il sax nervoso da jazz elettrico anni ’70, il flauto che sgambetta su distorsioni sempre più ampie di “Cassavetes” (un punto d’incontro ideale tra i Morphine e i Motorpsycho, si direbbe) e il fremito d’archi di “Gazebao Papetti crack”, né tra il commovente violoncello di “American tafano” e le dissonanti onde free jazz di “Porco io”.
Nessuno stacco, nessuna forzatura. Poi sì, certamente possiamo dire prog, o cinematico, o post-rock, ma non avrebbe senso: quello che si ha davanti è un disco di un’armonia incredibile.
E per chi volesse approfondire, c’è anche un side-project dal nome inquietante, Satan Is My Brother, che ha appena esordito con un elegante cd completamente nero edito dalla veneta BoringMachines, dove tre lunghi brani si estendono tra drones, apparizioni di ottoni e un’atmosfera densa di riverberi: chi ha amato la fuga free di “The national anthem” dei Radiohead e l’oscurità dell’ottimo debutto degli Strings Of Consciousness troverà pane per i suoi denti.