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“Volevo aprirmi in due come una cavia… perché finché non carico di dinamite le mie costole e non le faccio esplodere, non potrò mai davvero ricrescere.”
In antico spagnolo Arca significa “scatola”, “contenitore in legno” di valore rituale: una sorta di scrigno dove conservare gli oggetti più preziosi. Prima di potersi davvero definire come tale il primo atto di un’artista è darsi un nome: e il nome di Arca annuncia da subito la volontà di contenere sempre e mai di essere contenuta grazie alla scelta di un’identità in perpetua trasformazione che possa abbracciarne infinite altre. Il dolore lancinante di essere trafitti da un corpo estraneo, il proprio, e la volontà di rimodellarlo oltre ogni limite fissato da natura e cultura fino a farne un contenitore elastico, versatile, talvolta lussuoso altre volte ridotto all’essenziale, adatto a ospitare l’immensa creatività della trentenne Alejandra Ghersi: tutto questo è Arca, artista e incarnazione di un progetto musicale, spirituale e fisico oltreconfine, transgender e transumano. Arca sembra infatti conoscere bene i termini che più che definire il mondo ribadiscono l’importanza di fare l’opposto perché le parole non sono persone e non sono cose, indicano ma non possono sostituire né le une né le altre; e quando non bastano a spiegare un’artista può costruire una nuova se stessa primordiale e al tempo stesso fantascientifica, un’utopia vivente in grado di salvarsi e di salvare da un linguaggio ostile attraversandolo fino a oltrepassarlo.
Di rado la carriera di un’artista – specialmente quando così giovane – può essere coerente come questa: la produzione di Arca costituisce un corpo ampio ma nell’insieme omogeneo di costante riduzione dei suoni in frammenti e di loro ricomposizione successiva a volte nella canzone stessa, a volte più avanti nell’album e a volte addirittura anni dopo in un altro progetto. Questo perché è impossibile separare la musica di Arca dal suo percorso inevitabilmente travagliato di transizione non solo da ragazzo a non-binary, ma da giovane a individuo adulto e da essere umano a ibrido ideale del futuro, opera d’arte viva mescolata con le macchine e insieme con la mitologia originale dell’uomo da sempre innamorato dei propri demoni.
Così il singolo “Wound” nell’esplosione degli archi che per la prima volta, in “Xen” (2015), confida all’ascoltatore le emozioni dell’artista – ma in una voce e con parole ancora filtrate e distorte – si riallaccia nel 2020 a “Machote” dove Arca, finalmente libera da ogni censura, canta esplicitamente il desiderio di un uomo nella propria vita. Il sample è lo stesso ma la consapevolezza è un’altra, musicalmente e non solo: e un dispositivo di basi e di pensieri combinati e ricombinati tra loro disegna con lo stesso principio, di album in album, l’evoluzione emotivo-fantascientifica di Arca. “Stretch 1”e “Stretch 2” (entrambi del 2012) risentono ancora degli influssi del progetto precedente sotto il nome di Nuuro e poi di “Baron Foyel”(2011): il materiale di queste prime produzioni ancora embrionali confluisce nelle successive, riciclato e già più nitido. I testi parlano di droga, BDSM, sesso, disperazione: quasi inintelligibili, coperti dal suono, pronunciati in un parlato futuristico già in contatto con lo spoken-word e la trap. Mentre “Xen” e “Mutant”(2015) sono quasi del tutto privi di elementi vocali: soundtracks di immaginari viaggi in mondi alieni che non è difficile visualizzare, svolti in una dimensione intermedia di mutismo selettivo che esclude il linguaggio umano e predilige una costante contorsione tra rumore e silenzio.
E’ “Arca”(2017) a cominciare una paziente guarigione dalle brecce aperte nei lavori precedenti. La ricucitura intorno alle costole esplose avviene con l’inizio di un racconto: “Quítame la piel de ayer” -“toglimi di dosso la pelle di ieri”, tradotto-. Grazie alle fondamenta tracciate negli album precedenti “Arca” consente all’artista di respirare e di cantare per la prima volta senza filtri e limitazioni e dopo un lungo incipit “Desafío” la presenta finalmente pronta a mostrarsi a tutto tondo in un vortice sontuoso di suoni non più aspri che consentono di ricucire anche il ritmo, per una volta. Lungo il percorso accidentato dei sei anni tra il 2011 e il 2017 Arca si è spezzata e riassemblata più volte e questa dolorosa ma positiva “frankensteinizzazione” di se stessa si riflette nella scelta degli artwork che in “Stretch 1” e “Stretch 2” sciolgono il suo corpo in opere astratte e si rapprendono in un volto ancora deformato in “Xen”, mostruoso in “Mutant” fino al primo piano di “Arca” e alla definitiva rappresentazione della se stessa compiuta e intera, chimera robotica e sensuale nella copertina di “KiCk i”.
Negli stessi anni i mille volti dilatati, prestati ad altri, nascosti o ostentati di Arca si rincorrono in tutte le direzioni per poi ricomporsi in vertiginose performance live di balli sui tacchi, canzoni gridate in mezzo alla folla e attimi improvvisi di commosso raccoglimento in cui i pezzi più emblematici della sua carriera si fondono a un’interpretazione sempre viscerale e sempre nuova, perfezionata di tour in tour. Come quella al Sónar del 2017 di “Desafío”, che è una celebrata canzone di orgoglio queer. Ed è spesso definita “queer” anche la musica di Arca: ma in questo 2020 di rivolte sociali e rivendicazioni più che legittime è ancora possibile definire una corrente artistica in base all’identità di genere e all’orientamento sessuale di chi ne fa parte? oppure, visto che il termine “black/urban music” è stato finalmente abbandonato, non si dovrebbe fare lo stesso di fronte ad altrettanti beat e testi che travalicano l’origine del singolo individuo che produce musica, oltre che di quello che la ascolta?
“Tócame de primera vez/Mátame una y otra vez/Ámame y átame y dególlame/Búscame y penétrame y devórame”.
Nel vasto panorama discografico e artistico di Arca si intersecano armoniosamente anche numerose collaborazioni: ci sono il sodalizio storico con Bjork che tanto ha dato a entrambe e l’amicizia di un vita con Jesse Kanda, ma anche “EP2”(2013) e “LP1”(2014) dove Arca fa scoprire a FKA twigs una dolcezza e leggerezza nell’espressione dello stile che cambieranno la sua musica per sempre, contribuendo a rendere twigs l’icona eterea e irresistibile di oggi; e spiccano le collaborazioni con Kelela, a sua volta divinizzata e sospesa nell’intermittenza singhiozzata del beat finché la femminilità dirompente dell’artista non si intreccia a quella di Arca – ancora sottotraccia – prima in “Hallucinogen”(2015) e più tardi in “Take Me Apart”(2017). La firma di Arca è stata desiderata da artisti di ogni calibro, a partire da un Kanye West ancora concentrato e insuperabile talent-scout in “Yeezus” (2013). E poi Blood Orange, Mykki Blanco, Ryuichi Sakamoto, Frank Ocean: la sua produzione è inconfondibile ma trasversale, di volta in volta modellata alla perfezione su generi e personalità completamente diverse.
Arca ha sommerso e ridisegnato la nostra concezione collettiva di musica. Gli anni Dieci non sarebbero stati gli stessi senza di lei e “KiCk i” rimarca la sua ambizione tutt’altro che ingiustificata di essere altrettanto essenziale anche in questa nuova decade, grazie a uno sguardo autoironico e ormai rasserenato che lo rende uno degli album più significativi del 2020: SOPHIE, Shygirl, Bjork, ROSALíA accompagnano Arca in una dichiarazione di intenti entusiasta e come sempre avanguardista dove le basi e i testi si fanno più accessibili che mai a un pubblico più vasto senza per questo rinunciare agli ormai classici beat martellanti di “Rip the Slit” e, viceversa, all’ambient rarefatta che solleva pezzi melodici e struggenti come “Time” e “Calor”, fino a un’apertura alla PC music più irriverente in “La Chíqui” che promette nuove sperimentazioni successive e nuove metamorfosi. La sua ricerca però è sempre la stessa: non tanto di un futuro che Arca può già vedere e toccare, quanto di una musica che possa portare tutti gli altri lì dove lei già si trova. Per questo, ascoltandola, l’enciclopedia di sentimenti e di pulsioni da lei comunicati si raccolgono in una sensazione che finché non si prova si riterrebbe impossibile: è questa, forse, la vera nostalgia del futuro?