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Shamir Bailey è spiazzante. O meglio, spiazzante è il suo percorso artistico più che il suo nuovo album omonimo: un disco di per sé facilmente decifrabile e digeribile. Ora, sarebbe banale e anche superficiale leggere la discografia ondivaga del giovane musicista alla luce delle sue dichiarazioni sul proprio disturbo bipolare e sul non identificarsi né con un genere, né con un orientamento sessuale. Parliamo dei suoi dischi, che già di carne al fuoco ce n’è tanta lì (forse troppa?). Per capirsi, Shamir è quello di “Ratchet”, rivelazione electro-house-black del 2015, disco festaiolo, colorato, giustamente apprezzatissimo (dalle parti degli Hercules & Love Affair, volendo). Dopo di ché c’è stata una virata pazzesca in territori lo fi, folk e crudi come il punk più ignudo (suoni che già aveva”frequentato” prima, comunque). E poi da lì è partita una prolificità quasi allarmante, tant’è che con questo nuovo lavoro siamo alla settima pubblicazione (decima con gli EP!). Eppure in queste esplorazioni “al buio” e autoprodotte con composizioni scarne e umorali, Shamir è sempre risultato parecchio meno personale di un Moses Sumney o di un Yves Tumor, per dirne due fra i più eclatanti.
L’omonimo disco definisce un altro cambio di rotta perché qui si va su un indie pop chitarristico, ricco, un po’ vanitoso, generalmente poco obliquo, con ritornelli bellissimi e la voce di Shamir che si staglia impeccabile. È un falsetto ma non lo è, sta lassù, grazie alla sua androginia, a trascinare la musica che in questi anni ha sparso sotto: il pop di oggi, la ruvidità di “Cataclysm” (uscito a inizio pandemia), la ballabilità di “Ratchet”. A proposito, sembra proprio non aver fatto pace con quel disco di successo e tutto quello che ne è seguito, tipo i paragoni con un certo Micheal Jackson, le aspettative della XL Recordings, lo stardome a cui si stava affacciando. Troppo, per lui, per i suoi 19 anni e per tutto il resto che si è detto sopra. Lo stava portando fuori dalla sua vera strada. Ma quale percorso gli si adatta davvero?
Quando è uscito il materiale successivo a “Ratchet” ci si è chiesti se fosse “quello stesso Shamir lì” o un’altra cosa, un altro tizio che gli aveva fregato il marchio. Indicativo, no? Nel senso che, per esempio, quando Blood Orange ha smesso di essere Lightspeed Champion ha formalizzato la cosa. Caribou, per dire, dichiara addirittura le “generalità” di Daphni restando, come suoni, sempre relativamente nei paraggi. Invece Shamir vuole essere Shamir. Sempre. Anche quando cozza contro Shamir. Un altro che sceglie di mettere il proprio timbro su materiali diversissimi è Toro Y Moi. Ma lì c’è un senso di intrinseca continuità che travalica tutto. Pensiamo alla continuità magica e inspiegabile che lega i vari satelliti della carriera di Arthur Russell! Sono esempi di artisti che quando si situano su un nodo del loro percorso sembrano discretamente consapevoli degli altri nodi. Come se non avessero perso la mappa. Ed ecco ciò che manca qui, nell’intensa storia di Shamir, fatta di salti in cui la vocalità (arma di cui comincia ad esser consapevole) è forse il solo filo rosso. Il procedere per curvoni può segnalare sicurezza e libertà oppure può essere la spia di un approccio prevalentemente caotico. Ecco, il dubbio c’è.
Fatto sta che “On My Own” ha una struttura pop esemplare, così come “Running”. Per la prima volta, nel mélange dei suoni c’è uno corposità da band. Colpisce l’andamento simil metal e marziale di “Paranoia”. “Other Side” è un altro momento indie rock abbastanza radiofonico. Se vogliamo, in queste canzoni c’è anche qualcosa del Prince con la chitarra in braccio, quello che faceva bellissime pop song anche quando rinunciava al suo profilo più funky. Ecco però che viene un paragone con un altro che era inarrivabile in quella capacità di tenere insieme i pezzi distinti.
65/100