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Il loro nome è ripreso da un film cinese del 1998, “Xiu Xiu: The Sent Down Girl”, e la loro musica è una rielaborazione di post-punk e dark. Gli Xiu Xiu sono un quartetto californiano, capace di sfornare in appena un anno tre album di ottima fattura; se questo “A Promise” è infatti la conferma di quanto già preannunciato nello splendido esordio “Knife Play” non bisogna dimenticare l’EP, uscito sempre nel 2002 e intitolato “Chapel of the Chimes”.
L’album si apre con la delicata e vibrante verve acustica di “Sad Pony Guerrilla Girl”, sulla quale si adagia la voce lamentosa di Jamie Stewart mentre in sottofondo la tastiera propone suggestione notturne. Improvvisamente la tenue ballata sprofonda in un’angosciante cacofonia, dalla quale esce indenne e rafforzata, con la voce che si fa ora rabbiosa.
Un rumore di plastica stracciata apre “Apistat Commander”, che si divide fra ossessioni tecnocratiche e rumorismi prima dell’esplosione melodica, devastante e coinvolgente. La voce è davvero a pochi passi dai singulti post-romantici alla Robert Smith, e la rilettura del dark che la band propone prende corpo ulteriormente. “Walnut House” è un elogio alla cupezza pianistica, segnata da battiti metronomici e stranianti suoni di triangoli, narrata con voce catacombale; l’estasi pianistica della parte centrale, elegiaca, soffiata, non è che un’illusione, il mondo oscuro della band trova nuova linfa e consistenza mentre irrompono linguaggi meticci e incomprensibili, in contrasto fra di loro.
Il mondo degli Xiu Xiu è un mondo schiavo della tecnologia e dal rumore, e trova la sua pace apparente solo nelle zone d’ombra, nelle oscurità più solitarie. Come dimostrano anche “20.000 Deaths for Eidelyn Gonzales, 200, …” e la furibonda “Pink City”, che non lascia un attimo di respiro nei suoi due minuti e passa di frastornante delirio post-punk. Stralunate aritmie elettroniche si fondono a rimembranze sinfoniche e a catarsi rumoristiche nell’eccellente “Sad Redux-O-Grapher”, stridenti e snervati appunti western fanno capolino nel furore epilettico di “Blacks”, anch’esso destinato a trovare uno iato nella parte centrale, nel quale il vuoto si fa musica, come nella seguente “Brooklyn Dodgers”.
L’acustica torna a farsi sentire in “Fast Car”, monotematica narrazione della disperazione e della delicatezza: un soffio messo in musica. La dedica finale a Ian Curtis (“Ian Curtis Wishlist”) non lascia dubbi – se mai fossero esistiti – sulle matrici culturali di questa band sorprendente. Come gli Oneida hanno ripreso e destrutturalizzato la funzione del garage-rock, gli Xiu Xiu si propongono nella stessa veste per quanto riguarda il post-punk e il dark. Opere contemporanee che si interrogano sull’utilizzo degli strumenti e che sezionano con perizia le proprie radici culturali, stravolgendole eppure ravvivandole. Se questa è la promessa che ci è stata fatta, siamo proprio in buone mani.