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Giovane, carina e molto occupata. A soli vent’anni Beatrice Laus, cantautrice filippina naturalizzata britannica nota anche come Bea Kristi, arriva all’album d’esordio essendo già titolare di quattro EP, copertine su NME, apparizioni ai Brit Awards e un contratto per la Dirty Hit di The 1975, Wolf Alice, Rina Sawayama e Japanese House. Ragazzina prodigio? Non più di tanto rispetto a una media attuale che vede Billie Eilish, classe 2001, ragazza dei record su Billboard già da un paio di anni. E anche scendendo la scala della celebrità di qualche gradino la situazione non cambia molto: Bea fa parte di un boom di ragazzine indie pop che partendo dalle cover in cameretta su YouTube sono arrivate al successo, dalle varie Claire Rosinkranz e Benee passando per quella Clairo la cui “Pretty Girl” è stata un po’ lo starting point del fenomeno.
Lo scarto rispetto a tutti questi nomi consiste nella vocazione naturale di Bea per le chitarre elettriche e per l’indie-rock, cose che oggi sembrano agli antipodi rispetto al gusto medio della Gen-Z. Eppure è proprio sfruttando i mezzi dei propri coetanei – Instagram, TikTok, le dirette e i video in cameretta – che Bea e i suoi amici hanno saputo costruire un rapporto anche umano con una bolla sempre più grande trascinando tanti ragazzini nella propria passione. E alla lunga, col passaparola, sono arrivati a conquistare i consensi anche di una fascia di pubblico anagraficamente più grande e spesso snob nei confronti delle nuove leve. Una sfida vinta inconsapevolmente uscita dopo uscita, partendo subito da una hit. É successo infatti che nel 2017, dopo anni di violino e dopo ascolti compulsivi di Karen O, Florist e Alex G, in casa Laus sia arrivata la prima chitarra. Con la quale Bea ha composto “Coffee”, primo singolo che oltre ad aver attirato le attenzioni della suddetta Dirty Hit ha guadagnato in pochi giorni oltre 300000 visualizzazioni su YouTube e lo scorso anno ha garantito il successo al rapper canadese Pawfu che è passato dal successo virale su TikTok alle charts globali proprio grazie a un sample di quella canzone per la sua “Death Bed (Coffee For Your Head)”.
Nei successivi lavori Bea ha alzato costantemente il tiro, passando da numeri bedroom-pop malinconici a un power-pop sempre in equilibrio tra indie e bubblegum, un po’ alla maniera con cui Avril Lavigne giocava con gli stilemi pop-punk dell’epoca ma dando sempre l’idea di una maggiore sincerità sia sul piano attitudinale che su quello compositivo e produttivo, scegliendo suoni e arrangiamenti con un gusto sempre fedele alla linea anche quando incline al compromesso con il pop, pensando poco alla percezione esterna di quella musica e focalizzandosi sulla propria energia, sul proprio entusiasmo e sul rapporto con i fans.
“Fake It Flowers” vede entrare Bea in una nuova era, quella dove il suo nome ormai è in pista di lancio e dove di conseguenza la volontà di sfondare il portone del mainstream la vede alle prese con una produzione ben più sontuosa e robusta di prima ma anche (purtroppo) più ingombrante, sempre in linea con il suono degli anni 90 ma questa volta più verso l’industria che a partire dagli Smashing Pumpkins di “Mellon Collie And The Infinite Sadness” fece di quell’underground un mercato di massa fino alla fine del decennio. Proprio dalla band di Billy Corgan sembrano provenire certe batterie (“Together”) quando non proprio il suono generale (“Charlie Brown”, tra i momenti migliori del disco, sembra ereditare la solennità dei Pumpkins di “Machina”). Ma l’intero album è una terra di mezzo in cui convivono melodie vocali che ancora rimandano allo slacker USA di Pixies e Veruca Salt tanto quanto il grunge e l’alt-rock più patinato di Belly o Garbage. “Sorry”, un altro dei picchi del disco, è una pop-ballad con lo stesso potenziale mainstream di brani come “Secretly” degli Skunk Anansie o “I’m With You” di Avril Lavigne: se fosse uscita per una major in quegli anni, complice l’arrangiamento d’archi, sarebbe stata facilmente il main theme di qualche blockbuster movie sulla falsariga dei vari “City Of Angels”. Ci sono poi i consueti momenti bedroom a riallacciare il filo con le origini di Bea (“How Was Your Day?”), brevi ma intense parentesi dream-pop alla Sundays (“Back To Mars”), una “Emo Song” che a dispetto del nome tira nella direzione psych dei Flaming Lips omaggiati invece nel titolo di quel delizioso pastiche noise-pop chiamato “Yoshimi, Forest, Magdalene” che chiude l’album. E poi ancora c’è quella “Horen Sarrison” che essendo dedicata al fidanzato Soren avremmo immaginato scarna e acustica e invece è il fulcro del disco e insieme il suo momento più coraggioso, in cui Bea appoggia una melodia vocale dolcissima su una spirale di batterie e archi in costante progressione: tecnicamente potremmo definirla la sua “Champagne Supernova”, ma in più momenti sembra anche di vedere Dolores O’Riordan sorridere da lassù.
É difficile immaginare cosa succederà nella carriera di Beabadoobee da questo punto in poi: la ragazza non ha perso la sua ispirazione ma proprio quel sovraeccesso di produzione che dovrebbe direzionare il progetto verso il mainstream paradossalmente sembra fiaccarlo rendendo così arduo il confronto con i molti altri bei faccini dalle melodie lucide e ben rifinite che regnano là fuori. Conseguentemente è difficile capire quanta influenza avrà la sua presenza sulla scena e se altri seguiranno questo percorso o meno; per certo però il già grosso hype ottenuto da un progetto come questo è l’ennesima lezione per quanti ancora percepiscono la musica come un percorso dritto e ineluttabile anziché come un ciclo che periodicamente, di generazione in generazione, trova modi per adattarsi e riproporsi.
(73/100)