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Fa ridere pensare ad un nuovo disco degli Who nel 2006. Non tanto perché ormai sono i soli Daltrey e Townshend a tirare avanti la baracca (discorsi triti e ritriti che spesso lasciano il tempo che trovano), ma perché “Who” è ormai un concetto. Non è più un semplice gruppo, ma un’idea archetipa di musica. Una di quelle cose che dai per scontate come legate ad un tempo e ad una cultura che non ti appartengono se non per rimando e curiosità. Insomma, non è per nostalgia che ne stiamo qui a parlare: non ce ne può fregar di meno. Però gli Who non possono passare inosservati, vuoi perché hanno scritto una storia che spesso torniamo a sfogliare o anche perché – volente o nolente – è un disco che colpisce dove deve colpire perché ha tutti gli attributi giusti per “farcela” nel mercato discografico contemporaneo. Il nome. La fama. La storia. Purtroppo siamo ancora tutti troppo succubi dei mostri sacri e spesso si rischia di generalizzare. Sia in positivo che in negativo. Da un lato i quotidiani e certe riviste di settore che si stracciano le vesti scrivendo, in sintesi, che sì, la musica moderna (???) vale poco e per fortuna che tornato i veri rocker e gliela fanno vedere loro a questi ragazzacci, yeah. Dall’altro, gli snob dell’adsl. Quel tristo manipolo di sedicenti appassionati che ascoltano vagonate di indie senza uno straccio di cognizione e prospettiva storica che rifiutano a priori ogni cosa puzzi anche solo lontanamente di passato (… faccio di tutto l’erba un fascio: sfido a definire passato un Miles Davis. Ma questo è un altro discorso e rischiamo di partire per la tangente). Dobbiamo prendere ogni cosa con il dovuto distacco ed analizzare le situazioni caso per caso.
Ora. “Endless Wire”. Pete Townshend è appassionato di tecnologia e i misteri che girano attorno ad essa (nella sua testa frulla un gigantesco concept album che per gli appassionati dev’essere una specie di Torre di Babele del rock. Si chiama “Lifehouse” e forse non lo vedremo mai interamente compiuto), normale quindi trovarsi a che fare con canzoni che parlano di queste relazioni in rapporto con i soliti temi cari al buon vecchio spilungone. Claustrofobia, sociopatia, impossibilità nei rapporti e mancanza di comunicazione. Le canzoni degli Who girano attorno a questi topos dal ’69 – “Tommy” – per raggiungere lo zenith in “Who’s Next”, album proveniente dal futuro e che ancora adesso suona attualissimo. Forse è per questo che l’apertura di “Endless Wire” offre un fluttuare di sintetizzatori provenienti da “Baba O’Reilly”. Ed è proprio lì che vuole andare a parare. Magari a completare dando una nuova versione dei fatti, quasi da day-after. Ormai sono ragazzacci sulla sessantina e devono fare i conti con la vecchiaia. E, parlando di canzoni, fa sorridere ascoltare un pur sempre sanguigno Daltrey cercare di arrivare là dove una volta riusciva ad incendiare le menti, con scarso successo. Meglio quando i ritmi si fanno più confidenziali e la ballata “folk-soul” un po’ british vecchio stampo e un po’ Johnny Cash prende il sopravvento. Ce ne sono molte, in “Endless Wire”, e tutte di – sorpresa! – ottimo livello. Perché se quando gli Who giocano a fare gli Who paiono ridicoli, quando scrivono pezzi in relazione a quello che sono ora allora sì che trovano una loro sistemazione.
In definitiva. “Endless Wire” è un disco con alti e bassi, diviso tra la voglia di due vecchie glorie di confrontarsi col loro passato (perdendo) e di trovare una nuova collocazione nel panorama musicale (vincendo). E anche la solita mini-opera di Townshend appare più sopportabile se scritta con l’onesto trasporto della qui presente “Glass & Wire” cui è incaricata la chiusa del disco. Lo spunto è un racconto scritto dal chitarrista sul suo blog e parla della vita di una band e dei ragazzi che si muovono attorno ad essa, con tragedie, colpi di scena e le solite ambiguità cui ci hanno abituato in passato le storie di Pete. Ora, bisogna anche dire che questo è il miglior disco degli Who dai tempi di “Who’s Next” dato che “Quadrophenia” appare ora come un lavoro fuori tempo, fuori fuoco ed invecchiato malissimo. L’idea dietro questi Who tragati 2006 è di cercare di non prendere in giro nessuno. E date queste premesse e la bontà delle canzoni, possiamo anche perdonare i periodici tuffi di nostalgia nello stereotipo. Certo che 23 euro, però, sono un po’ troppi…