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Cosa resta della frontiera
Perlopiù ambientati nel Midwest, i film di Chloé Zhao non vogliono solo riprendere le condizioni socioeconomiche dell’America profonda, ma intendono anche riflettere su ciò che rimane, oggi, del mito della frontiera e delle sue origini.
Una mitologia che nei lavori della regista trova i suoi “eredi” negli outsider disagiati ed emarginati che popolano gli States rurali: dai nativi adolescenti di Songs My Brothers Taught Me al cowboy proletario di The Rider, fino ai nomadi semi-disoccupati di Nomadland, visti come i successori ideali dei pionieri dell’Ovest. In quest’ultimo caso, la storia è quella di Fern, una donna di mezza età che, dopo aver perso marito e impiego, si “trasferisce” nel suo camper recandosi di volta in volta in South Dakota, Nebraska, Arizona e California per cercare i lavori più disparati, da corriere per Amazon a cameriera in un fast food.
Nel raccontare la vicenda della protagonista e, più parzialmente, delle persone che ne condividono il destino, Chloé Zhao sottolinea più volte che le ragioni che spingono i personaggi a condurre una vita girovaga non sono solo di natura economica e sociale, ma anche psicologica ed esistenziale. Infatti, quelle al centro del film sono storie di individui non più conciliati con il mondo e la società, che hanno scelto un’esistenza nomade, indipendente e solitaria per reagire a situazioni personali difficili e a volte persino tragiche, fatte di lutti, malattie e rotture familiari.
Ed è proprio in questo stile di vita e nelle motivazioni che lo guidano che la regista trova un parallelismo con i pionieri del West, come viene evidenziato anche nel finale, in cui si cita l’ultima scena di Sentieri selvaggi, il capolavoro di Ford dove il protagonista è, appunto, un pioniere nomade, solitario e non riconciliato. Una serie di parallelismi e riflessioni portata avanti attraverso tre differenti piani stilistici e narrativi: quello intimista e privato sulla protagonista; quello collettivo e semi-documentaristico sulle persone che la donna incontra durante il tragitto; quello poetico ed elegiaco sulla natura attraversata da Fern nei suoi spostamenti.
Una struttura, quella appena descritta, in cui risiedono i principali pregi e limiti del titolo in questione: se le riprese liriche sui paesaggi – pur a tratti suggestive – rischiano di essere un po’ stucchevoli e forzate nel loro reiterarsi, la focalizzazione sui personaggi è invece davvero riuscita, grazie anche allo sguardo sobrio e mai giudicante della cineasta, che riesce sempre a mantenere la giusta distanza dai soggetti narrati. Elementi che rendono Nomadland un film al tempo stesso crudo e delicato, capace di riprendere i disagi di un’umanità ai margini come di portare avanti una riflessione amara sull’America e su quel (poco) che resta della sua mitologia.
Nomadland [id., USA 2020] REGIA: Chloé Zhao.
CAST Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Swankie.
SCENEGGIATURA Chloé Zhao (tratto dall’omonimo libro di Jessica Bruder).
FOTOGRAFIA Joshua James Richards. MUSICHE: Ludovico Einaudi.
Drammatico, durata 107 minuti.
di Juri Saitta
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