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È già successo almeno una volta con la Dirtchamber session Volume One di Liam Howlett, nel lontano 1999: dei seguenti volumi non se n’è fatto ancora nulla. Qui invece abbiamo direttamente una Part Two da buontemponi, in pieno stile Beastie Boys: “Magari vi è sfuggito qualcosa, non siete stati abbastanza attenti”, oppure, semplicemente, “Hey, a noi va di fare proprio così, prima la Part Two e dopo la One, arrangiatevi, shit!”. In realtà, la risposta sembrerebbe essere tutta nel cancro diagnosticato a uno dei ragazzi (MCA Adam Yauch) nel 2009, anno in cui l’uscita di Hot sauce Part One non andò più in porto, rivelando più che mai la natura mortale degli eterni Boys di Brooklyn. Invece eccoli qui, a due anni di distanza dall’incidente (così come rappresentato nel videoclip di “Make some noise”, con la buffa controfigura di Adam che prima sfonda una vetrina aiutato dai compari Ad-Rock e Mike D controfigure, e poi viene scaraventato in aria da una limousine, risollevandosi miracolosamente illeso e riprendendo a cantare come nulla fosse successo mai), con un prodotto rivisto e riadattato alle sensazioni dell’anno corrente, una seconda parte che a detta loro fa più bella figura. Una fortuna dal punto di vista dei riscontri, visto l’andazzo dei due precedenti “The mix-up” e “To the 5 borroughs”, giacché a conti fatti non c’è dubbio che questo “Comitato di salsa calda” faccia la sua parte migliore, riportando in vita tutto lo spirito old school degli esordi, solo più maturo: “Le mie rime invecchiano bene come il vino” e in più “I’m getting bolder competition is waning”, la concorrenza è in calo (decisamente). L’irraggiungibilità creativa resta ai precedenti “Il communication” e “Hello nasty”, ma non è affatto un problema, purché si continui alle venerande età di 45, 46 e 47 a toccare le corde, a fare buona musica. Ce n’è bisogno. Non è solo un fatto di astuzia o di nostalgia, conta pure invecchiare bene, restare Boys: l’entusiasmo.
Non fosse così, “Make some noise” non s’imporrebbe sfacciato e insolente dalla vetta della tracklist del Comitato, facendo “casino” e subito ben sperare riguardo i beat a venire. Ricorda un po’ la vecchia “Sure shot”, e in generale tutto il rap caricato e realmente suonato (batteria, chitarra, basso) di questi ebrei bianchi, nati hardcore punk (vedi la no.12 “Lee Majors come again”) e ormai Beastie da oltre trent’anni: “Boys Entering Anarchistic States Towards Inner Excellence”. Nel Comitato troviamo tracce come “Nonstop disco powerpack”, “OK” e “Too many rappers” (feat. NAS, quello di “Hip hop is dead”), in cui il suono torna alle atmosfere jungle-spaziali di “Hello Nasty” anche se risultando all’apparenza più rozzo e meno rifinito. “Say it” è una “Intergalactic” finita fuori orbita in modo esasperante, mentre “Don’t play no game that I can’t win” è un po’ la sorpresa dell’album, come ritrovarsi di colpo sparati in una Dancehall in cui l’unica cosa che resta da fare è abbandonarsi alla coinvolgente trama reggae (Santigold alla voce). Sedici tracce per 45 minuti circa, mixate da Philippe Zdar dei Cassius (già al lavoro con Daft Punk e Air), nulla di così impegnativo, solo tanta voglia di esserci ancora come band che attraverso molteplici vie è riuscita a crearsi uno stile proprio e fortemente riconoscibile.
Nel 1986 il mondo si risveglia con l’inno crossover “(You gotta) Fight for your right (to party)” sbalordendo la scena Street di gente come Run DMC e Public Enemy. A venticinque anni di distanza i Beastie scelgono di tornare proprio dai fumi di quel party, come sottolineato nel clip di “Make some noise” o nel cortometraggio, presentato al Sundance Festival, “Fight for your right Revisited” dello stesso Adam Yauch (tra gli altri attori, Susan Sarandon, Jack Black, Will Ferrell e Steve Buscemi). Una rivisitazione goliardica e autocelebrativa, un’altra delle loro per rimarcare: “Yes, here we go again”.
70/100
(David Capone)
22 giugno 2011