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Lo preciso subito: a me “When We All Fall Asleep, Where Do We Go?” non ha fatto impazzire o, meglio, ne ho indubbiamente riconosciuto la freschezza e novità, ma il suo strizzare l’occhio a tutte le tendenze mondiali me lo faceva risultare antipatico. Certo, come si sa non si trattava di un prodotto costruito a tavolino quanto piuttosto un vero e proprio unicum fatto da una ragazza adolescente e da suo fratello con pochi mezzi, però non riuscivo a non trovare fastidioso quel suo ammiccare a melodie catchy e suoni perfettamente aderenti ad essere una colonna sonora di Tik Tok.
Per questo credo di essere piuttosto asettico nel giudizio di questo suo secondo “Happier Than Ever” che è – a mio parere – migliore di “When We All Fall Asleep, Where Do We Go?”. Oddio, la maggior parte del pubblico non sarà d’accordo perché dove prima c’erano pezzi che filavano via lisci (anche per le radio) qui in “Happier Than Ever” si è fatto spazio un rimuginare più adulto, meno immediato ma che riconosco più intelligente. Le ballate prendono il sopravvento ma soprattutto Billie guarda e attualizza le muse del passato, come se fossimo ancora negli anni Trenta (come nella prima parte della titletrack, che poi purtroppo si trasforma un po’ in una canzone di una Avril Lavigne qualunque) o come se volesse prendere lo spazio anche di una Lana Del Rey (“Halley’s Comet”, “Everybody Dies”). Non si tratta di un passo indietro quanto in avanti: nel momento in cui lei è esplosa con un linguaggio molto “suo” ma che inevitabilmente faceva da minimo comune denominatore tra le sonorità hyperpop/trap/hip hop che andavano sul finire del decennio scorso (a mio parere appiattendole), ora prende coscienza che il suo ruolo non può prescindere da quello che c’era prima di lei, affinché la sua musica rimanga come irrinunciabile in un flusso di storia musicale sempre in divenire.
E diventa quasi naturale dunque che questo suo sforzo coincida con il nascere di diverse domande dentro di lei, sulla sua fama con i vantaggi e gli svantaggi, sul ruolo “sessuale” di qualunque cantante (uomo o donna che sia), sui propri fallimenti sentimentali, come è per tutti. Anche se lo fa – bisogna dirlo – con una ancora perdurante leggerezza di chi sa che ogni problema è risolvibile e con una ammirevole sensibilità precoce, posto che la Eilish ha ancora solo 19 anni.
I momenti glitterati e “modaioli” ci sono, e sono quelli più pop (“Lost Cause”, “my future”), ma sono i meno riusciti: io trovo invece molto più interessanti gli sconfinamenti in quella che potrebbe essere definita una “psyco-elettronica minimale”, come nella esaltante “Oxytocin”, nella notturna “GOLDWING” e nel dubstep-pop di “OverHeated”.
Su tutto colpisce quella facilità e naturalezza nel costruire un album lungo (il che dimostra anche il coraggio di andare contro logiche dell’era dello streaming che imporrebbero dischi corti) con poche coordinate, precise e ben definite, canzone per canzone, e di ciò non può esserne che dato merito anche alla produzione del fratello Finneas O’Connell. L’epopea di Billie Eilish è solo all’inizio e la sua ecletticità fa ben sperare affinché la cantante losangelina continui a cercare strade diverse, album dopo album, come hanno fatto sempre i grandi artisti.
80/100
(Paolo Bardelli)