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C’è chi sostiene che siamo di fronte ad una rinascita musicale nel nostro Paese, di fronte ad una scena che si sta formando. Sinceramente, non la si vede. La domenica 6 giugno, ad esempio, eravamo al Miami e – a parte un Festival che davvero sta diventando un punto di riferimento a livello di professionalità e organizzazione – non è che si sia notata così tanta qualità negli artisti che si sono esibiti. Anzi. A parte i picchi negativi di una Petrina che starebbe meglio a teatro che su un palco indie, il resto è parso piuttosto piatto a parte una gran sorpresa elettrizzante, che per noi è unicamente una conferma avendone già parlato – e bene – nel report dell’ultima giornata di Italia Wave dello scorso anno: gli Wora Wora Washington.
Dal vivo i veneziani Wora Wora Washington confermano quello che già di buono hanno fatto sentire con il loro “Techno Lovers” (Shyrec, 2009), e persino lo migliorano. La botta del loro electro-punk è come dev’essere: urla, contorsioni, sintetizzatori analogici ipnotici, una batteria sempre in bilico tra la precisione di un metronomo e la libertà di un’improvvisazione in una jam degli anni Settanta, un istinto naturale per la ruvidezza imponente e scura che impone all’ignaro spettatore di “muovere il culo”, come si suol dire utilizzando un linguaggio giovane. Qualcuno potrà aver speso il termine “nu rave”, ma noi ci sentiamo di riportare semplicemente gli W.W.W. nell’alveo (poco) rassicurante del punk, ovviamente in una delle sue declinazioni più attuali, quella electro-industrial. “Heart Ingestion” e “Daja” sono pezzi che potrebbero essere buttati in pista in una malfamata disco londinese stipata all’inverosimile ed ottenere un’esaltazione alla Trainspotting.
Della scena italiana complessivamente considerata non ce ne frega più di tanto, molto di più ci piacerebbe finire in Inghilterra, ordinare una pinta in una di quelle discoteche e sorprenderci con il dj che mixa gli Wora Wora Washington.
(Paolo Bardelli)