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Si può anche dire che qui Vedder infrange una mezza legge non scritta. Una di quelle leggi che definiscono i rapporti tra una band (ancora viva) e un suo membro che ha una parallela carriera solista. E, premetto, non è che sia per forza una brutta cosa, questa. In sostanza, nel nuovo disco, Vedder smette (in buona parte) i panni del cantore acustico nella natura e indossa qualcosa che potrebbe sembrare l’abito del leader dei Pearl Jam. Ma senza i Pearl Jam. Pearl Jam che, per completare il cortocircuito, nell’ultima prova in studio (e non solo) sono sembrati un po’ fagocitati proprio dal cantante e da quello status di cantastorie nel verde. Restiamo ancora su quel “Gigaton” (2020) che sapeva tanto di Vedder, sia nel lato folk che sul versante più sanguigno.”Gigaton” era ed è un disco perfettamente allineato a quella che può essere definita una terza (lunga) fase dei Pearl Jam (che non sono più quelli di “Vs”, of course ma di certo neanche quelli di “Binaural”). L’ultimo della band è un album permeato da un sincero afflato ambientalista e battagliero ma un po’ trascurato dalla dea ispirazione. Muscoloso più che sostanzioso nelle parti grintose, discreto nei passaggi (abbondantissimi) più rarefatti.
E da “Earthling”, visti i precedenti da solista, ci si poteva aspettare prevalentemente questa bontà rarefatta. Che poi è una cosa che a Eddie Vedder riesce ancora abbastanza facile e che pubblico e critica sembrano riconoscergli con altrettanta benevolenza e pure un ricambiato affetto. Questa è stata un po’ la nicchia che il Vedder solista si è fabbricato e attraverso cui si è stampato una sua iconcina di coerenza, semplicità, carisma, direi soprattutto concretezza. E direi anche di rilettura di se stesso in alternativa all’essere in una band, all’essere il leader di una band così importante. “Earthling” vede al timone il cantante assieme al produttore mainstream Andrew Watt (che suona il basso) e il resto dell’equipaggio è formalmente un signor equipaggio, con Josh Klinghoffer (reduce dall’esperienza con i RHCP) alla chitarra e Chad Smith (che nei RHCP c’è dall’88) alla batteria. E poi ci sono le ospitate di lusso (Elton John, Stevie Wonder e Ringo Starr).
Alla fine, come s’intuisce, “Earthling” è un po’ un minestrone che va da Springsteen e Tom Petty fino a Seattle e poi al punk, al folk. Non funziona sempre ma quando l’incastro gira è come se Vedder avesse trovato una terza via, non eccelsa ma dignitosa, dopo le due già sperimentate nel corso di questi trent’anni. Sono attimi, eh. Sono barlumi. Eppure nel break di “Good and Evil”, nel ritmo serrato di “Try”, nel punk melodico di “Rose of Jericho”, nel finale un po’ psych affidato a “On My Way”, c’è qualcosa che gli va fermamente riconosciuto. Nel dettaglio, sa lucidamente fare il punto della situazione, della sua situazione, della storia che rappresenta. Da quando era un ragazzetto col vocione, con gli occhi brillanti, con la totale assenza di vertigini a oggi che è un signore con i piedi ben piantati sul palco. Non fa quello che non ti aspetteresti più da lui, però esce da un binario quel tanto che basta per farsi ritrovare un’altra volta. Sono trent’anni che, bene o male, sai che da qualche parte lo ritrovi. Da diverso tempo ha i capelli troppo diradati per farli ricrescere lunghi come vorrebbe ma ha anche pochissima voglia di tagliarseli più corti.
68/100
(Marco Bachini)
(immagine in evidenza tratta dal sito ufficiale pearljam.com)