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“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” viene detto nel Gattopardo ed è la sensazione che permane ascoltando “Once Twice Melody”il doppio album, diviso in quattro capitoli del duo di Baltimora Beach House. Intriso di sintetizzatori sognanti e malinconia, l’ottavo lavoro del dream team supera l’immaginabile. La title track si apre con un’atmosfera distaccata, Victoria Legrand mantiene una intima e misteriosa armonia con se stessa. “Runaway” riporta il duo al loro aspetto più seducente del Capitolo 2, con ritmi pulsanti e tasti fragili, simili a quelli di un clavicembalo. La spettrale “Masquerade” raggiunge il culmine apertamente goth-rock nel Capitolo 3, prima che le canzoni finali svaniscano lentamente in una calda nostalgia dell’ora d’oro, chiudendosi nell’oscurità cosmica di “Modern Love Stories”. L’intero catalogo dei Beach House potrebbe essere rappresentato come un insieme di sculture di cristallo, diverse tra loro, formate dello stesso materiale, scolpite usando gli stessi strumenti, sempre dalle stesse persone.
La struttura e la varietà di Once Twice Melody non è mai in ritardo su 18 tracce, la sua pubblicazione graduale convalida paradossalmente il formato dell’album come a voler conquistare e, al contempo, stuzzicare l’ascoltatore poco a poco. Per tutti e gli 84 minuti del disco, i Beach House hanno molto spazio per misurarsi con cose diverse ed è per questo che il tutto suona invariabilmente fenomenale. Ci sono chitarre acustiche piumate, sintetizzatori analogici acquosi e cambi di accordi che esplodono come fuochi d’artificio contro il cielo notturno, e il tutto è stato mixato per enfatizzarne i contrasti sfumati e le dimensioni gonfiate. Menzione speciale per “ESP” dalla melodia pop mimetizzata sotto strati di riverbero; “New Romance”, sostenuta da un loop folle simile al canto inebriante di Calliope e “Another Go Around” ancorato ad un riff di basso e una melodia insolitamente diretta tra i lavaggi di synth. Hanno sepolto la canzone più pop, “Hurts to Love”, nella traccia 16, e meritano un applauso per il brano “Finale” come prima traccia dell’ultimo Capitolo.
Quattro Capitoli dai dettagli più sontuosi che mai, sembra tutto un unico lunghissimo suono che si diffonde, fino a quando non lo ascolti attentamente, ed è lì che ti accorgi, che coesistono simultaneamente sei o sette elementi diversi: quel suono rigoglioso non è solo la chitarra acustica suonata da Alex Scally, ma è pesantemente trattata, combinata con una sezione di archi adagiati su un tappeto melodico complesso, il tutto ornato da synth e dall’eterea voce di Victoria. Questo disco appartiene totalmente ai Beach House nella sua forma più estrema e sperimentale, un dream pop tendente allo shoegaze, che sembra cambiare ad ogni ascolto, pur restando lo stesso. Sebbene l’album mantenga la spinta futuristica di un viaggio interplanetario, si trovano ampi spazi di nostalgia musicale appartenenti ai lavori precedenti, come un libro di fiabe dal sapore retrò. La contrapposizione più stridente, ma anche più bella, arriva sul bagno di archi della centrale “Sunset”, uno dei brani più morbidi, che mette in risalto la voce togliendo la batteria per quasi tutta la durata. Non c’è alcun dubbio che Once Twice Melody vanti dei punti musicalmente sbalorditivi, sarà dunque giunto il momento dell’ incoronazione del duo di Baltimora? La risposta vive e muore nel viaggio emotivo del disco. Sebbene si fermi prima di un’epopea concettuale a tutto campo, Legrand intreccia una serie di narrazioni intersecate di amore e solitudine, intimità e abbandono, maturità e nostalgia. Ognuno di questi temi è abbastanza ricco da alimentare molto più di ottantaquattro minuti, ma la narrazione dei Beach House è sfocata fino al punto di sfiorare l’indissolubilità. Il lirismo e l’espressione languida sospendono l’effetto di ogni impulso emotivo come miele. Questi sono i Beach House, fedeli a se stessi nei loro momenti magici e noiosi, impalpabili nella grandiosità.
“The end is the beginning, beginning to an ending” canta la flebile voce di Victoria nell’ultimo brano del Capitolo 4 “Modern Love Stories”, un lungo loop senza fine, eppure necessario: “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
77/100
(Simona D’Angelo)