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Dove finisce la citazione e dove inizia la copia? Come si smaschera un impostore? Domande molto difficili nella musica dove le sensazioni imperano. Se però dobbiamo seguire il nostro istinto, nel debutto di King Hannah il bilancino si muove fortemente, come un contatore Geiger, verso la assoluta e asciutta derivatività.
Tante erano le attese per il duo di Liverpool che anche qui in “casa Kalporz” avevamo caldeggiato il loro debut album, ma alla resa dei conti l’impressione – che oramai è più di una percezione essendo l’album uscito da più di un mese e avendolo sezionato in lungo e in largo – è che siano state largamente frustrate. Se il singolo “All Being Fine” continua a spaccare, dimostrandosi ancor oggi un gran pezzo che gira su elementi finanche personali (il tempo circolare, Hannah Merrick che ci mette del suo, le nebbie effettistiche che dolcemente adagiano il mood), nel resto i fantasmi dei Portishead e dei Mazzy Star sono più che una presenza manifesta, è un haunting continuo che rende il disco una casa infestata da cui andarsene. Del resto è la stessa Hannah ad avere confermato la sua ossessione di voler imitare il canto di Hope Sandoval. Il che è surreale per un disco che ha un titolo che afferma perentoriamente di “essere se stessi”, ma è un po’ un’excusatio non petita, è come quelli che quando fanno un intervento in un consesso dicono: “Sarò breve”: fateci caso, sono i più lunghi di tutti.
L’impressione dunque è che “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me” abbia sbancato la critica molto più dalla parte boomer (a cui io mi inserisco, eh) e millennial, perché ricreante una comfort zone sonora che non ha permesso di essere lucidi sulla significatività della proposta nel 2022. In questo senso prima di scrivere la presente recensione ho fatto una prova (che non vuol dire niente nella sua estemporaneità ma che mi ha rassicurato) chiedendo a una delle più attente (e giovani) penne di Kalporz, Viviana D’Alessandro, cosa ne pensasse di “I’m Not Sorry…” (senza dirle ovviamente il mio pensiero). Mi ha risposto esattamente come pensavo: derivativi, carini ma non interessanti. Anche a lei, come a me, non è tornata la voglia di riascoltare l’album “per svago” e questa è la cartina tornasole. Io mi ci sono dovuto mettere tante volte a suo cospetto perché volevo capire, volevo approfondire, ma tutte le volte non mi ha lasciato (quasi) nulla. Anzi, nel pezzo in cui canta Craig Whittle, “Ants Crawling on an Apple Stork”, ho trovato i King Hannah persino fastidiosi.
Certo, non si stanno mettendo in dubbio le doti: la rielaborazione imitativa necessita di tanto studio e sicuramente i panorami slowcore di brani come la titletrack o “Berenson” non sono facili da ricreare, le strutture ci sono (solidamente costruite su progetti di altri architetti) e pure una innegabile capacità di scrivere melodie di presa, quindi si tratterebbe solo di utilizzare il proprio talento per fini più intimi, più sinceri, e questo potrà certamente avvenire in futuro se i King Hannah si guarderanno dentro e uccideranno i padri putativi. Fino ad allora però “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me” non troverà più spazio nei miei ascolti e nella mia attenzione, fino a che le classifiche di fine anno mi ricorderanno che sono stato tra i pochi a non lasciarmi ammaliare dalle sirene dei King Hannah.
Bene così, se l’attualità musicale deve avere un sapore identico al passato, permettetemi di consigliare ai nostri due lettori di cercare altrove.
60/100
(Paolo Bardelli)