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Quando sogno di essere in una casa, quasi sempre sono nell’appartamento dove vivevo da piccolo. Di quello conosco tutti gli angoli, tutti i pertugi: la sala che ti trovavi a destra dell’ingresso, ampia e spaziosa oltreché luminosa (era disposta a ovest) e che sfociava nel balcone lungo e stretto, quell’altrettanto lungo corridoio che si snodava a sinistra della porta d’ingresso e che terminava con il piccolo bagnetto, dando sfogo a lato prima alla cucina e poi alle due camere. Quella più ambita, per un bimbo, era l’ultima, quella del papà e della mamma, rifugio in notti di paure e di fantasmi immaginati (mi ricordo che fuggivo dal mio lettino e andavo a rannicchiarmi su un cassettone ai piedi del lettone, così, senza coperte, bastava la loro vicinanza a scaldarmi).
Ecco, ci sono album che si conoscono così, a menadito, profondamente in ogni loro nota, e a me succede questo con “The Completion Backward Principle” dei Tubes (1981). È che era una delle prime cassettine che entrarono in casa (registrato su un lato di una C90 da amici di mio fratello più grande), quando il numero delle musicassette possedute si contava sulle punta delle dita di una mano, e perciò fu da me ascoltato all’imbecillità. Ci sono tornato su qualche giorno fa, e ho pensato che sia stato molto formativo. Perché è particolarmente movimentato e ha in sé i semi di tantissimi generi e moltissime idee diverse: c’è l’eclettismo tipico di San Francisco, c’è un’urgenza punk, c’è soprattutto l’avanguardia della new wave americana (per cui quando anni dopo sentii i Talking Heads, non mi sorpresi più di tanto perché tutto era già dentro “The Completion Backward Principle”), ci sono sì rimasugli di quell’art rock in quota glam degli anni settanta che non ho mai amato ma qui risulta stemperato dalla monumentale ironia della band.
Che fu, per chi non lo sa, una tra le pioniere di spettacoli dal vivo sfarzosissimi e costosissimi, come un grandioso e variegato “The Horror Picture Show”, con oggetti di scena e costumi costruiti al The Tubes Warehouse dalla band, dalla crew e dagli amici. Il tutto era uno spettacolo enorme, con dozzine di altri artisti, compresi ballerini di tip tap e acrobati, una parodia di film e di situazioni come quella – ad esempio, per rimanere all’album oggetto di questo articolo – di un film da spiaggia per “Sushi Girl”. Questi spettacoli erano così costosi che, all’inizio degli anni ottanta, avevano lasciato la band in debito con la A&M Records, l’etichetta che aveva pubblicato i Tubes fino al 1980 (“The Complexion…” infatti è il loro primo su Capitol): i Tubes infatti erano stati costretti, per pagare i debiti dei tour, a vendere alla casa discografica i diritti delle loro canzoni!
Ricordo che ad esempio quando ascoltavo “Attack Of The Fifty Foot Woman” fantasticavo su questi spettacoli immaginandomi l’ingresso sul palco di una donna enorme, in realtà dal video qui sotto si vede il leader Fee Waybill prima dentro una camicia di forza e poi prendere in ostaggio una donna vestito in mimetica con tanto di passamontagna, ma – insomma – era comunque una roba movimentata:
Per godere invece di quelle performance dal vivo da un punto di vista sonoro più che visuale, è consigliato l’ascolto dell’album live “What Do You Want from Live” (1978), particolarmente conosciuto all’epoca e che mostra anche tutta la tecnica notevole della band.
Non ho conoscenza approfondita degli altri album dei Tubes, “The Completion Backward Principle” è il loro quinto e il successivo “Outside Inside” del 1983 ebbe ancora più successo (in totale ne pubblicarono otto in studio), ma nella mia personalissima visione “The Completion Backward Principle” è un intero mondo che ne racchiude di infiniti, e li rappresenta tutti. O forse solo uno, quello della mia cameretta di bimbo in cui un fanciullo sogna i palchi di San Francisco.
(Paolo Bardelli)
foto di Jorgen Angel