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Arezzo Wave, il padre dei festival gratuiti italiani, ha toccato con l’edizione 2006 il fatidico traguardo dei 20 anni. L’organizzazione ha voluto celebrare l’importante ricorrenza puntando sul grande prestigio guadagnato in questi lustri, per dimostrare che Arezzo Wave ormai è un’istituzione, insostituibile nella sua capacità di unire, comunicare, creare situazioni divertenti e stimolanti, anche a dispetto di un cartellone privo di colpi ad effetto. Non ha creato grossi problemi l’introduzione di un biglietto per coloro che entravano dopo le 21.15 per assistere ai concerti del Main Stage: mantenendo sostanzialmente la gratuità dell’evento, l’organizzazione ha deciso di porre questa piccola gabella (appena 5 euro) sia per sostenere i costi del festival, visto che le amministrazioni locali hanno stretto i cordoni della borsa, sia per incentivare la gente a seguire anche i nomi meno famosi. Giusto così, credo.
Anche quest’anno quindi Arezzo Wave ha proposto, accanto ai nomi più o meno grossi del Main Stage, un’ampia scelta di nomi del panorama indipendente italiano sul Wake Up/Psycho Stage, più i groove danzerecci dell’ElettroWave, più un fitto programma di rassegne, incontri ed eventi extra musicali: dai fumetti alle performance di prosa e cabaret, passando per workshop sulla scrittura e incontri sul cinema di fantascienza…
Noi però di musica parliamo: a questo proposito, l’impressione che ho avuto è che il cartellone stesse lì a voler dire che basta il marchio Arezzo Wave per giustificare scelte multiformi, a volte di difficile interpretazione, e tenerle tutte assieme. Non ci sono state sorprese, ma molte belle conferme per quanto riguarda gli italiani del Wake Up/Psycho Stage, mentre mi è sembrata più composita e non perfettamente amalgamata l’offerta del Main Stage, che spaziava da nomi blasonati del panorama indie a dance acts forse più adatti all’ElettroWave, a momenti autenticamente nazionalpopolari come Skin e Gianna Nannini, cui è addirittura stato concesso l’onore della chiusura. Proverò a raccontarvi qualcosa di meno vago.
Wake Up/Psycho Stage
Ci sono due motivi per cui considero il palco di Colle del Pionta, nella sua veste mattutina di Wake Up Stage e pomeridiana di Psycho Stage, un po’ la quintessenza del festival aretino: da un lato, per via della colorata fauna umana ivi radunata, dreadlocks treccine t-shirt stracciate cani buffi e tutto quello che di gggiovane vi può venire in mente; dall’altro per la solida e abbondante offerta di nomi del panorama indipendente nostrano, visti durante l’anno su mille palchi e palchetti in giro per l’Italia e finalmente tutti riuniti sulla ribalta dello Psycho, a ribadire lo storico legame fra Arezzo e i suoni più o meno sotterranei di casa nostra. Da Bugo agli Zu, da Cesare Basile a Marco Parente, passando per il fenomeno mediatico Fabri Fibra e l’ospitata internazionale di Marky Ramone, lo Psycho ci ha offerto motivi a sufficienza per disertare la piscina del campeggio (beh, quasi sempre) e sfidare il solleone, confortati appena da qualche birra fresca.
Tra tutti quelli che sono riuscito a vedere, e quelli che mi sono piaciuti sul serio, vi butto lì qualche frammento che probabilmente mi ricorderò anche fra un anno.
Marco Parente inizia il suo set indossando un inquietante cappuccio, lo stesso con cui appare sulla copertina del suo “Neve Ridens pt. 2”, da cui spunta solo la bocca: un incipit a occhi chiusi che va raccolto come suggerimento, per abbandonarsi al flusso ipnotico che il cantautore napoletano sa creare dal vivo. Non stona neanche il fatto che si svolga tutto alla luce del sole: nei riflessi gialli del tardo pomeriggio la musica di Parente sembra sembra allungare ancor di più le ombre, si adagia sulla pelle mentre il calore del giorno evapora, resta sospesa come gli odori di fiori e resina del parco circostante. E tutto senza l’ausilio di sostanze chimiche, almeno per quanto mi riguarda. Notevole.
Più sanguigno, legato a spazi polverosi e calavere elettriche il set di Cesare Basile, che guadagna il palco con fare sornione, barricato dietro gli occhiali scuri, e fa crescere man mano la musica in un tumulto di feedback e suoni taglienti, per aprirla poi a suoni di desolazione e di siccità antica: mi trovo ancora sul prato del Colle del Pionta, ma ho davanti i deserti di Nick Cave, oppure dei Calexico, che Basile sa evocare con inquietante e fuorviante noncuranza.
Una grande conferma arriva dagli Ardecore, che si presentano al gran completo con il “karateka” Geoff Farina. Seppure penalizzato da qualche problema tecnico, l’ensemble romano suscita emozioni forti con le sue riletture dei classici della tradizione popolare romana: trascinati dall’energia di Gianpaolo Felici, gli Ardecore incantano una platea fino a quel momento impegnata più a godersi il sole pomeridiano che ad ascoltare. Per un’ora tutti gli occhi e le orecchie sono per le storie di bambini portati via da sorti crudeli e amori inevitabilmente votati alla tragedia, in una sorta di rito sciamanico che annulla i decenni, o più spesso i secoli che ci separano dai tempi in cui il repertorio degli Ardecore veniva cantato in ogni angolo della città eterna.
La consueta dose di suoni spaziali viene elargita dai Julie’s Haircut, i quali a dire la verità sono i primi a sembrare piuttosto spaced-out: sbattuti praticamente sul palco non appena scesi dal furgone, reduci da un tour de force che li aveva visti suonare appena qualche ora prima a Torino, i ragazzi di Sassuolo comunque affrontano il set aretino con una buona dose di divertimento e forse un pizzico di scanzonata incoscienza. Fatto sta che il set fila via liscio come l’olio, il pubblico apprezza e le prime file vengono coinvolte da Luca in un gioco di bricolage sonoro con un theremin ottico, un aggeggio che trae suoni dalla presenza/assenza di luce.
Qualcos’altro? Ci sono stati anche i suoni tesi dei Marta sui Tubi, le carnevalate degli Amari, il combat folk dei Casa del Vento… ma questi ve li racconterà qualcun altro.
Main Stage
L’onere di attirare il “grosso pubblico” se l’è accollato il Main Stage, presso lo stadio comunale: il cartellone ha messo assieme alcuni grandi nomi italiani che garantiscono il “tiro” (Marlene Kuntz, Bandabardò, Baustelle, Silvestri, Caparezza…) a una serie di ospiti stranieri piuttosto composita, che andava da nomi blasonati ma francamente un po’ arrugginiti (Sinead O’Connor, Skin) alla chicca per il pubblico indie (Cocorosie, Greg Dulli). La gente comunque ha risposto e si è divertita, e le oltre 150mila presenze registrate quest’anno sono lì a testimoniarlo. Io mi limiterò a raccontarvi un paio di cose che ho annotato sul mio taccuino kalporziano.
Per quanto mi riguarda, lo show da ricordare di Arezzo Wave 2006 rimarrà quello delle Cocorosie, chiamate a dare continuità dalla presenza della gang di Devendra Banhart dopo Antony and the Johnsons nell’edizione 2005. Sarà il caldo, oppure l’aroma di salsiccia nell’aria, ma le sorelle Casady dimenticano e fanno dimenticare la loro usuale timidezza per abbandonarsi a un set gioioso e surriscaldato, per motivi non solo musicali. Sierra, vestita da marinaretto, e Bianca, mascherata da pirata con tanto di basettoni e mustacchi dipinti sul viso, si avvalgono del “beatbox umano” Spleen e di un bassista per dare una veste più corposa e meno eterea al loro repertorio, in particolare ai brani dell’ultimo “Noah’s Ark”. Tra un gavettone di Bianca ai danni di Sierra e un goffo e irresistibile invito a battere le mani, entrambe si impegnano a spogliare Spleen e trasformarlo in una sorta di giocattolo erotico, nel divertimento e l’eccitazione generale. Memorabile.
Trionfo pressochè scontato per la Bandabardò, che ormai non ha più nulla da dimostrare oltre al confermarsi una macchina da divertimento implacabile, forte della bravura dei singoli musicisti, dell’istrionismo di Erriquez, e di un repertorio live che suscita fremiti orgiastici al solo nominare i titoli dei brani. Tutti li amano, e loro ricambiano.
Altro bel momento, forse meno scontato, per i Marlene Kuntz, che cullano il pubblico di Arezzo con un set di impronta smaccatamente greatest hits, e proprio per questo emozionante: Godano e i suoi si immolano davanti al pubblico percorrendo la loro carriera con una performance accorata ma composta, nella chiave slow in cui hanno impostato l’ultimo tour, senza la paura di disturbare chi pratica per sport la ricerca del momento in cui “i Marlene si sono svenduti”. Ecco perché, visto che ce n’era l’occasione, i MK non ci risparmiano il duetto con Skin su “La canzone che scrivo per te”, ma tutti sono felici e quindi va bene così.
A proposito, cosa ci si poteva aspettare da Skin? Qualche brano del periodo solista, tanto per gradire, poi gli anthems più sentimentaloni degli Skunk Anansie, pace all’anima loro? Esatto, va proprio così, e giù tutti a cantare. Del resto la piccola pantera pelata attinge abbondantemente all’armamentario classico della primadonna rock, e all’ennesimo “ARE YOU READY??”, strillato che neanche Madonna vent’anni fa, mi viene voglia di metterle la risposta per iscritto, così magari la smette. Attorno a me vedo comunque un sacco di facce felici, per cui, ancora una volta, immagino che vada bene così.
Per il resto, mi sono perso qualche altro set che sicuramente avrebbe meritato, oltre la chiusura affidata a Gianni Nannini… e continua a sfuggirmi il perché di questa scelta, così come continua a sfuggirmi il motivo dell’inclusione di Laurent Garnier sul Main Stage quando sarebbe stato più a suo agio fra i meandri dell’ElettroWave… ma queste, dopotutto, sono questioni da accademia. L’importante è che Arezzo Wave abbia festeggiato degnamente il suo ventennale, e vedremo l’anno prossimo se il più grande festival gratuito italiano punterà sulla conferma di sé stesso o avrà voglia di reinventarsi… di sicuro qualche kalporziano sarà là per raccontarvelo.