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Mogwai, Vox, Nonantola (MO), 11 maggio 2022
Lo diciamo subito: il titolo dell’articolo non poteva che essere questo. I titoli di solito li scelgono i titolisti, ma a Kalporz facciamo un po’ tutto noi, e quello doveva essere. Il riferimento alla volpe che mostra i denti in copertina nel loro ultimo “As the Love Continues” (2021) è naturale e finanche un po’ scontato, ma assume un significato che va oltre la rappresentazione in grande copia della copertina dietro ai cinque sul palco del Vox. Perché al termine volpe si associa di solito l’aggettivo “vecchia”, e direi che ci siamo perché il gruppo non è più giovanissimo ma sarebbe stato ingeneroso sottolinearlo anche nel titolo, e poi anche “furba” il che però nel loro caso deve essere precisato e interpretato nel vero significato dell’utilizzo diffuso. Solitamente infatti si dice che le volpi sono “furbe” perché si sanno ben adattare all’ambiente in cui si trovano, e questo vale anche per il gruppo scozzese: nella loro carriera i Mogwai non sono mai cambiati realmente ma si sono evoluti, affiancando alla loro classica elettricità sospesa una sempre più compiuta poetica melodica e finanche elettronica. L’aggettivo “ringhiosa” invece è ok perché ieri sera a Nonantola la band capitanata da Stuart Braithwaite è stata aggressiva, agguerrita, si direbbe rabbiosa se non fosse che i quattro titolari del gruppo appaiono sempre molto pacifici mentre suonano. Dei tatoni, si dice dalle mie parti. Fa eccezione, ma solo un po’, il sopracitato Braithwaite che ogni tanto si esalta e il session-man Alex Mackay che in molti momenti sembra un Johnny Greenwood tarantolato.
Il concerto è ruotato ovviamente molto intorno al bellissimo “As the Love Continues”, saccheggiato nella mattiniera “To the Bin My Friend, Tonight We Vacate Earth” e nell’imaginifica “Dry Fantasy”, con i picchi di una “Midnight Flit” che sarebbe stata perfetta, in quel momento, cantata da Robert Smith e di una super-energica “Drive The Nail” dove le note lancinanti di Braithwaite sembravano spilli sul corpo dell’ascoltatore. Il pubblico ha gradito invece molto la cassa dritta e le evoluzioni dell’arpeggiatore in “Remurderer”, che non è altro che quel lato elettronico a cui accennavamo all’inizio, mentre il paio di canzoni dell’encore non è stato, a dirla tutta, all’altezza del concerto, sarebbe stato probabilmente meglio che i Mogwai l’avessero chiuso con la foga di “Old Poisons” ma di certo non stiamo a lamentarci per due pezzi meno a fuoco.
I Mogwai hanno in generale usato una “compostezza esplosiva” che, quando li ho visti in passato, non sempre sono riusciti a manifestare (in realtà solo a un concerto, nel 2006, mentre coinvolgenti furono quelli del 2009 e 2011), ma l’impressione è che da allora siano grandemente cresciuti e sappiano padroneggiare l’esibizione lasciandosi un poco andare (ma poco, eh). È una band da ascoltare in studio ma che riesce a ricreare dal vivo tutta la tavolozza dell’espressività dei pezzi registrati (e ciò vale viceversa, e cioè che incide bene quello che suona) senza stravolgimenti, ma con cura, con attenzione. E con una certa dose di rivincita, come se quell’etichetta di “post-rockers” che è stata affibbiata loro tanto tempo fa e che ovviamente li limitava dovesse oggi essere necessariamente superata. Io li definirei dei “Morricone sonici”, in effetti.
La serata in ogni caso è stata speciale: è un momento particolare per vedere dei concerti, lo si dice spesso. E non è solo per il senso di ripartenza, ma soprattutto c’entra il fatto che sono le stesse band ad aver voglia di suonare, lo si avverte subito. È come una sorta di ringraziamento per esserci, per aver (quasi) superato, per essere andati avanti. E se già il momento del live è una specie di rito pagano di per sé, oggigiorno questo sentimento è amplificato e la musica suggestiva dei Mogwai ha elevato all’ennesima potenza questa sensazione. Intanto, grazie Mogwai, poi vedremo.
(Paolo Bardelli)