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Low, Teatro Duse, Bologna, 12 maggio 2022
“I’m awake / Must be another day“.
Quando i Low sono in tour, la mia rete di amicizie sparse per il mondo improvvisamente si riattiva: gli amici più stretti, ma anche le persone che non sento da diversi anni, cominciano a scrivermi messaggi, a chiamarmi, a inviarmi audio, per condividere in qualche modo quel momento unico e irripetibile che è sempre un concerto del trio dal Minnesota. Il mio amico olandese Joey, che durante la pandemia ha tentato il suicidio, mi chiama dal Paradiso di Amsterdam, proprio in mezzo al concerto, e tra la musica e le reazioni del pubblico riesco solo a distinguere le sue urla di gioia (più tardi scoprirò da un suo messaggio che aveva appena ascoltato “Especially Me” da “C’mon”, l’album dei Low preferito da me e da Joey); qualche sera dopo, è la mia splendida amica Licia a scrivermi dalla chiesa di St. George a Kempt Town, Brighton (ma perché solo in Italia non riusciamo ad andare oltre la dimensione del club o del teatro per la musica dal vivo?), prova a descrivermi l’atmosfera struggente dell’esibizione e mi manda un audio di un’altra delle mie canzoni del cuore, “What part of me”.
“All night / You fought the adversary / It was no ordinary fight“.
Rifletto su tutto questo mentre attraverso la mia piazza preferita di Bologna (Santo Stefano), direzione Teatro Duse, location scelta dai Low per la loro unica data italiana nel tour di “Hey What”, e mi piace pensare che forse tutte queste persone sparse per il mondo, che ascoltando i Low dal vivo ricevono così tante emozioni da sentire il bisogno di condividerle con i loro “simili”, rappresentano proprio quella “comunità” di cui spesso parlano nelle loro canzoni e nei loro messaggi Alan Sparhawk e Mimi Parker: un gruppo di esseri umani che non vedono confini, trascendono il tempo e lo spazio, si amano fra di loro e amano la condivisione e, nei momenti di difficoltà, si aiutano a vicenda, con una profondità semplice.
“What does it cost you to give it away? / You never wanted it any other way“.
Entro al Duse e la serata musicale è già cominciata: siamo colti (sì, perché l’esperienza è collettiva fin da subito) dal fragore catartico generato dalle Divide and Dissolve, interessantissimo duo doom metal strumentale con sede a Melbourne. Suonano in due (Takiaya Reed alla chitarra e al sassofono e Sylvie Nehill alla batteria) ma, per via dell’energia lisergica di chitarra e sassofono e del drumming granitico, sembrano in venti. Esibizione lampo ma clamorosa. Assolutamente da approfondire. C’è un po’ di tempo per riprendersi, poi i coniugi Sparhawk e Parker salgono sul palco accompagnati dalla bassista new entry Liz Draper. Un breve saluto, poi lo strappo incandescente di “White Horses” dà il via ad una prima parte di concerto interamente dedicata all’ultimo album. I brani vengono eseguiti seguendo esattamente l’ordine del disco, dimostrando, anche nella dimensione dal vivo, la compattezza sonora inscindibile di “Hey What”. La ricchezza sonora espressa dal trio sul palco è impreziosita dallo scorrimento sullo schermo di immagini di paesaggi naturali e suburbani, particolarmente evocative delle atmosfere lowiane. Come ha giustamente fatto notare il nostro Samuele Conficoni nella sua recensione al disco, il trio slow-core ha ripreso il discorso già cominciato con il precedente “Double Negative“, dispiegando al centro del proprio paesaggio sonoro la distorsione e il frammento, sintomi, più che cause, di quel collasso sociale in cui versa il mondo contemporaneo.
“I bought some sweet sweet sweet sweet sunflowers / And gave them to the night“.
Nella seconda parte dell’esibizione i Low eseguono brani tratti dagli album del passato, in particolare i recenti “Double Negative” e “Ones and Sixes”, ma c’è anche spazio per alcuni pezzi d’annata che scaldano il cuore dei presenti come “Monkey” e “When I Go Deaf” (“The Great Destroyer”, 2005), l’immancabile “Sunflowers” (“Things We Lost in the Fire”, 2001) e “Canada” (“Trust”, 2002), che chiude il concerto con un tocco classic rock particolarmente adatto a smorzare un po’ le emozioni e a dirsi “ciao, alla prossima” come fra amici di vecchia data che non si perderanno mai.
“The consequences of leaving / Would be more cruel if I should stay“.
Il calore umano e la tenerezza dello stare insieme opposti all’ansia e al collasso del mondo. I temi-chiave dei Low sono in questa fase enfatizzati ancora di più dal vivo attraverso arrangiamenti caratterizzati da una lentezza estenuante e dalle tipiche meditazioni agitate lowiane, il tutto sempre a partire dalla semplicità degli accordi, dagli intrecci eterei fra voci, senza il minimo utilizzo di effetti elettronici o digitali. “Every time I see that ship go out / It feels like everything’s complete“, canta Sparhawk in “Disappearing” nel mezzo del concerto, e in quel momento realizzo che forse, a volte, scomparire sia l’unico modo per affermare la propria presenza.
(Emmanuel Di Tommaso)
(Fotografie di Samuele Conficoni)
[Potete leggere qui la setlist dello show bolognese dei Low.]