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Questa volta, per il decollo, bisogna aspettare un po’ di più. Lo scorso “Ten stones” aveva messo le basi per una rinascita elettrica, che accompagnasse la “mano intrecciata” di David Eugene Edwards lungo territori diversi da quelli già battuti a bordo dei 16 Horsepower: “The Threshing Floor” invece si rimangia tutto e riporta il discorso al gothic-folk di partenza. All’indomani delle dimissioni di Emil Nikolaisen, chitarrista, l’irruenza incendiaria degli ultimi brani ha ceduto il posto ad una manciata di brani dal mood riflessivo: partono in sordina e cuociono a fuoco rigorosamente lento, da coltivare ascolto dopo ascolto.
Ma mettersi a parlare di involuzione sarebbe fuori luogo, tanto più se si ha a che fare un tipo come Edwards, che da sempre sta (e fa stare il suo popolo) in bilico sul confine: tra questi solchi, poi, è il concetto stesso di “frontiera” ad assumere un senso lato. Non più soltanto la linea che separa la antinomia acustico – elettrico, ma tutta una rete di nazioni musicali confinanti, esplorate in quelle terre di mezzo che contemporaneamente ne dividono e uniscono storie. Vengono a galla, ma dopo qualche ascolto soltanto, nervature di ritmica nordafricana, i suggestivi cori ‘pellerossa’ nascosti dietro a “Behind your breath”. Convivono assieme il flauto pastorale ungherese (!?) che guida la volata di “Terre haute” e il quadratissimo giro di batteria di “Truth”, che dalla veste new wave dei New Order passa a questa riproposizione acustica con invidiabile disinvoltura (le stesse liriche, scritte da Peter Hook trent’anni fa, ritrovano puntualmente il loro tasso di intensità e alienazione).
Ciliegina sulla torta – per un disco che sembra uniforme ma in realtà non sta fermo nemmeno una traccia – è “Denver city”: a suggello di tutto un percorso di tormento spirituale (quello sì, sempre immutato) troviamo questo brano di quasirock’n’roll, che nasconde fra le sue pieghe un’irresistibile pulsioni “leggera”. Una chiusura così sospende tutte le facili profezie, fino al prossimo giro.
(Simone Dotto)