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Diciamocelo subito in faccia per fare i simpatici: il primo disco dei Vampire Weekend (e il suo inarrestabile successo sorprendentemente trasversale) è o è stato, insieme all’elezione di Obama, uno degli argomenti più persuasivi a favore di una società luminosamente multiculturalista. Anche i quattro newyorchesi hanno infatti vinto la loro scommessa dell’ottimismo possibile con la forza povera (ma a ben vedere inarrestabile) di un’idea semplice, uno “Yes, You Can” che ha trasformato, nel volgere subitaneo di qualche click, una piccola delizia indie-twee-pop canterina per pochi accoliti in un blockbuster alternativo (nonché imitatissimo) di proporzioni milionarie.
I Vampire Weekend continuano così a non sbagliare una camicia manco morti e, al tempo stesso, a piacere alla gente che piace e che, in fondo, ama piacere. Ora ritornano con un nuovo album dal titolo vagamente battagliero (ma potrebbe trattarsi anche di una più consona citazione dell’omonimo e storico, quasi archeologia generazionale, videogioco della Nintendo) ed altissimo appare, visto il fitto cicaleccio telematico tuttora in corso, il rischio di assegnare anche a loro un Nobel preventivo come salvatori dell’immaginario poetico indie internazionale prima ancora di aver effettivamente tastato le reali doti inventive dei nostri alla prova del secondo album (che secondo molti dice sempre, nel bene e nel male, la più o meno amara verità).
Andando per certi versi ad occupare quel trono vacante che fu di Dead Cab For Cutie e Shins, i Vampire Weekend si riconfermano anche nel nuovo (e assai sofisticato) lavoro quello che già erano: perfetti eroi della gioventù americana culturalmente più evoluta. La loro strategia si perfeziona a dismisura ma rimane del tutto fedele alla sua più intima (e collaudata) essenza: un afro-pop da perfetti dottorandi in etnomusicologia postmoderna con David Byrne e Paul Simon nel ruolo di cordiali relatori e Feelies e Housemartins a spuntare irriverenti da una tasca della giacca gualcita come giocoso (ma mai del tutto banale) svago di uno spirito bambino.
La scrittura, in pezzi come “Horchata”, “Give Up The Gun” o “Diplomat’s Son”, appare cresciuta, meno immediata, gli arrangiamenti tradiscono la volontà di edificare situazioni sonore più forbite e sfaccettate, ma la calligrafia del gruppo non smarrisce per niente la propria snellezza e il proprio nitore cristallino. I sintetizzatori (vera e propria novità rispetto al vicino passato), con il loro cromatismo tenue e vezzosamente retro, tinteggiano gli sfondi romantici e calorosi in cui prende corpo il suono affabile e amico di canzoni come “Holiday”, “California English” o “White Sky”, che vanno nel complesso a definire i contorni di un album ben vestito e produttivamente ingelatinato, dall’eloquio fluente e dalla scapigliatura sempre controllata ma mai compassata, leggero e sportivamente scattante come la polo Ralph Lauren della pulzella ritratta nell’assai enigmatica copertina, messa quasi a guardia di quanto il disco avrà da raccontare.
Illuminata dalla luce densa e potabile di un pomeriggio newyorchese riflesso in un bicchiere di aranciata tiepida, qui e al contempo in qualsiasi parte del mondo a portata d’immaginazione, si addensa in questo modo tra le nostre orecchie estasiate una vera e propria epopea (ascoltate “I Think U Are A Contra”, quasi dalle parti della Punguin Cafè Orchestra in formato pop pocket) dell’adolescenza colta nel perenne atto di dire addio a sé stessa, avvolta per l’occasione in melodie sinuosamente aderenti e capaci, invero come poche altre oggi, di proiettare sulla vita (non si sa bene fino a che punto realmente vissuta) un’aura di invincibile buon umore, come neanche il miglior telefilm reaganiano via cavo. Che fosse questo ciò di cui avevamo effettivamente bisogno, è tutto un altro paio di maniche. Ma, come direbbe l’ultimo e più ricreduto Woody Allen: basta che funzioni.