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Il 24 luglio 2022 resterà una data importante in questa annata musicale: Joni Mitchell è salita sul palco del Newport Folk Festival, dove mancava dal 1969, per uno show non annunciato, il suo primo spettacolo di lunga durata dal 2000 a oggi, quando decise di non effettuare più vere e proprie tournée. Da allora le sue apparizioni erano state rarissime: pochi eventi speciali, premiazioni e cerimonie nel 2002 e nel 2013 e in ultimo il MusiCares dell’aprile di quest’anno, dove era stata insignita del prestigioso premio e dove aveva cantato due brani in quella che era risultata la sua prima performance in pubblico dal 2013. Nel 2015 Mitchell era stata colpita da un aneurisma che le aveva causato gravissimi problemi di mobilità e di comunicazione. Era ricomparsa in pubblico in poche occasioni, tra cui, nel 2016, a un concerto di Chick Corea, tra gli spettatori. A convincerla a salire sul palco a Newport poche sere fa, quando Joni ha regalato il primo live show di lunga durata in ventidue anni, è stata la cantautrice e amica Brandi Carlile, che già era stata protagonista, nel 2018, di un concerto tributo per i 75 anni di Mitchell dove Carlile eseguì Blue per intero mentre Joni sedeva tra il pubblico.
La festa di emozioni, di colori e di note (e di lacrime di stupore e di gioia, in primis di chi era lì ma anche nostre che possiamo godere di ciò solamente attraverso i video girati dai partecipanti e pubblicati su YouTube) che si è sprigionata al Newport Festival di quest’anno per la performance di Mitchell non ha incluso solamente Carlile: al fianco di Joni, che è stata quasi sempre seduta ma ha anche suonato un po’ la chitarra, che a quanto pare non suonava su un palco da circa 8660 giorni, c’erano altri nomi pazzeschi, tra cui quelli di Alison Russell (clarinetto), di Blake Mills (chitarra, già collaboratore di Fiona Apple, Perfume Genius, Bob Dylan) delle Lucius (cori, in passato al fianco di Roger Waters e dei War on Drugs), di Marcus Mumford (percussioni) e di Ben Lusher (pianoforte). La sorpresa è stata incredibile, il colpo d’occhio straordinario: la notizia ha fatto subito il giro del mondo. Mitchell e Carlile hanno anche rilasciato una breve intervista alla CBS nella quale hanno riflettuto sulla performance e non solo. La chiacchierata con Anthony Mason, pur breve, è illuminante per quanto riguarda le sensazioni e le impressioni di Mitchell in merito al presente e alla sua enorme legacy. “I’ve recovered from a lot of things”, dice Mitchell quasi con un sorriso, ricordando il fatto che la poliomelite l’aveva colpita in maniera molto grave, lasciandola temporaneamente paralizzata. “I was crying”, ripete Mason nel servizio, non solo per il valore storico dell’evento, ricorda, ma anche e soprattutto “for how good she sounded”. I video presenti sul web ne sono la prova.
Qual è, dunque, la dimensione di questa performance? Quanto è rilevante a livello storico e quanto ancora ci dice di un genio musicale e poetico qual è Joni Mitchell? Ogni risposta potrebbe in realtà risultare banale, pleonastica, ovvia. Tuttavia è necessario porsi tali questioni e necessario è darvi una risposta. Nel mare magnum del cantautorato femminile – e non solo, ovviamente – contemporaneo Joni Mitchell è uno dei punti di riferimento maximi, una delle vette più alte cui si possa guardare, apprezzata e stimata da tutti e così influente per tantissimi artisti. La sua prolungata assenza dai palchi ha reso la sua vita misteriosa e le sue storie personali e le sue sensazioni – cosa starà provando, cosa starà facendo adesso? – impossibili da immaginare. Per una cantautrice, per una poetessa, per una musicista che con le parole ha dipinto universi, il rapporto con le proprie creazioni è fondamentale. Lo è anche per il pubblico: è fondamentale provare a capire come un grande artista ancora vivente si relaziona con la sua stessa arte adesso. Dopo quello che ha passato, inoltre, non era affatto scontato rivedere Mitchell su un palco. Nel dibattito è intervenuto anche un prestigioso neurochirurgo del Ronald Reagan UCLA Hospital, il Dottor Anthony Wang, che ha ricordato che “to be able to recover to the point of being able to perform as a musician is really incredible”. La stessa Mitchell, nel ricordare gli anni di riabilitazione seguiti all’aneurisma, aveva parlato di un “return to infancy”, provando a trovare, come ogni grande artista sa fare, un aspetto confortante e ottimistico anche nelle enormi difficoltà che ha dovuto vivere.
Joni Mitchell è ancora le sue canzoni. Fortunatamente la performance di Newport ci ha rassicurati sia sul suo stato di salute sia sul fatto che la musica è sempre al centro della sua vita. Lo si può notare dai suoi spontanei sorrisi, dalla sicurezza e dall’autorevolezza che trasmette ai musicisti che ha a fianco, dal trasporto che ancora mette nell’interpretare ogni brano. Su ciò non avevamo dubbi, chiaramente, ma un così lungo silenzio – conseguente, in primis, alla terribile vicenda che ha vissuto, ma iniziato ben prima – potevano cambiare chiunque. Lei non è cambiata. Nella sua voce profonda, più baritona di un tempo, ancora più perfetta, paradossalmente, nell’accompagnare in ogni singola sillaba il solco del tempo che passa, che come una ferita scava nelle nostre anime, si colgono ancora tutte le sfumature che siamo abituati a notare ogni volta che la ascoltiamo, quella capacità unica di penetrare in profondità e quasi in punta di piedi segreti indicibili, l’eterna lotta tra la vita e la morte, tra la rabbia e la gioia, tra le pagine bianche e quelle piene di scritte – talvolta, tuttavia, illeggibili – di cui le sue canzoni parlano.
Forse, semplicemente, la maggiore profondità e oscurità della voce di Mitchell, già percepibile nelle incisioni degli Anni Duemila, è soltanto una nostra impressione. Quell’aspetto della sua voce, infatti, è un dato che è sempre stato lì, almeno sin da quando, nel 1969, Joni Mitchell cantava “I really don’t know life at all” in “Both Sides, Now”, un manifesto di poetica lucidissimo per una cantautrice allora così giovane. Eseguita anche a Newport, cantata in duetto con Carlile, “Both Sides Now” è forse la canzone che più di tutte esemplifica la portata rivoluzionaria del cantautorato di Mitchell e il suo sguardo acuto sul mondo e sulle tristi creature che lo popolano. È stata anche la prima grande canzone di Mitchell: la scrisse nel 1966 e la eseguì per la prima volta in quello stesso anno, al Second Fret di Philadelphia. Aveva soltanto ventitré anni. In una scaletta così piena di classici, da “A Case of You” a “Big Yellow Taxi”, da “Carey” a “Help Me”, condita anche di alcune cover bellissime, tutto è sembrato convergere proprio su “Both Sides, Now”, penultimo brano del set, giusto prima della conclusiva “The Circle Game”. Quasi ogni canzone di Mitchell potrebbe essere stata scritta ieri e avere la stessa potenza e la stessa rivelanza di quando fu originariamente composta.
La valenza paradigmatica di “Both Sides, Now” può dunque applicarsi a tutti i brani in scaletta, ma rivedere Mitchell sul palco mentre canta e sorride non può non farci scorrere nella mente il testo di quella canzone. “I’ve looked at life from both sides now / From win and lose and still somehow / It’s life’s illusions I recall”, canta Mitchell, mentre la sua voce pare quasi inabissarsi nei timori e nei dubbi che aveva ieri e che ha oggi. La produzione di Mitchell è sempre stata both sides: paradiso e inferno, oscurità e luce, ed è come se oggi riscoprissimo qualcosa di ovvio, talmente ovvio che abbiamo rischiato di darlo per scontato. Lo abbiamo sempre saputo, ci è stata sempre stata davanti anche in tutti questi anni. Per un momento, però, ci è sembrato di essere davvero vicini a Joni Mitchell. Solo adesso ci ricordiamo che è sempre stata qui, al fianco della sua musica.