Share This Article
Data: 12 ago 2022 – 14 ago 2022
Luogo: Helsinki
Pensavo che niente si sarebbe mai avvicinato a Nick Cave sotto al diluvio di Porto nel 2018. Poi ho visto Nick Cave con la luce del tramonto finlandese a Suvilahti.
Sicuramente il circo dei Gorillaz ha ribadito il posto di Damon Albarn nella storia. Certo, il carisma di Florence Welch è di quelli pregiati e porta l’audience in uno stato di genuina devozione.
La sensazione, però, è che Nick Cave e i Bad Seeds siano sempre qualcosa di più e che alla fine ogni festival debba essere inderogabilmente marchiato dal loro passaggio. Sarà la presenza scenica dell’australiano, la sua intesa mefistofelica con Warren Ellis, la dominio sonoro dei Bad Seeds, l’aggiunta di questa gradazione gospel agli arrangiamenti. Quello dei Bad Seeds non è stato un banale concerto. Se lo fosse stato, il modo indemoniato e furente con cui hanno suonato “From Her To Eternity” sarebbe il momento da rievocare. Invece tocca lasciare una delle migliori interpretazioni di una delle migliori canzoni di sempre quasi in disparte.
Senza tornare a parlare delle vicende personali di Cave, di cui si è già detto troppo, è innegabile la catarsi causata da questa tormentata preghiera collettiva lunga due ore. In lui ed in chi partecipa al rito. Guardare i Bad Seeds nel 2022 significa lasciarsi cadere del tutto, in tanti casi scoppiare a piangere (cry, cry, cry), senza neppure capire del tutto il perché (just breathe, just breathe, just breathe). Il perché delle cose è così sopravvalutato, a volte.
È tutto talmente poderoso, carnale, umano, da far dimenticare che il Festival ha avuto tre giorni di eccellenze assolute. Serve uno sforzo di razionalizzazione considerevole per ricordarsi che il gazometro non è apparso dal nulla a tingersi di rosso per via di “Red Right Hand”. Durante il concerto di chiusura del festival era tutto così inappuntabile -dalla luce, al cielo, agli edifici- che sembrava il lavoro di un meticoloso scenografo.
Ed invece le ciminiere svettavano già quando Caterina Barbieri trasportava il suo pubblico in un’altra dimensione, causando il primo vero terremoto emotivo del weekend. Se durante un suo set doveste capitombolare in piena sindrome di Stendhal, sappiate che non sarete i primi né probabilmente soli.
I grattacieli, con i suoi cantieri, che ci guardano dall’alto e dal futuro della “nuova skyline” di Helsinki erano già là quando sul main stage si alternavano vari idoli locali che ti fanno venir voglia di imparare questa lingua impossibile, anche solo per capire cosa stessero intonando tutti i presenti.
La centrale a carbone di Hanasaari già titaneggiava al di sopra di tutti quando sul main stage Burna Boy e Princess Nokia facevano dimenare gli stessi che poi si sarebbero lasciati cullare dalla voce di Michael Kiwanuka.
Lo skatepark e i suoi graffiti erano già là quando la voglia di chitarre riavvolgeva il filo rosso che in qualche modo lega icone come le Bikini Kill alle nuove leve più irriverenti come i Fontaines D.C. o più cerebrali come i black midi.
Suvilahti sembra essere stata concepita apposta per poter accogliere un evento che passa dal jazz barbiturico di Timo Lassy e Teppo Mäkynen, ai bpm deliranti del cortile Resident Advisor, alle note di Arvo Pärt, alla sensualità robotica e alienante delle Smerz, al flow (!) spaccaossa di Freddie Gibbs.
Oltre a tutto questo, il grandissimo lavoro nel rendere il Festival a più basso impatto possibile. In questo il Flow è sempre stato un esempio virtuoso, fin dagli albori. Non solo dovrebbero tutti seguirlo, ma avrebbero dovuto iniziare prima a farlo.
Si dice che la Finlandia sia il Paese più felice del mondo, ma è anche il Paese dove la felicità non va ostentata, anzi va nascosta. È un paradosso, uno dei tanti.
Helsinki, non dovresti solo essere davvero felice di avere il Flow, ma dovresti anche spifferare la tua felicità a tutto il mondo.
(Carmine D’Amico)