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17 luglio 2009 – La giornata
di Paolo Bardelli e Stefano Folegati
Il secondo giorno di Italia Wave vissuto qui, dalla mattina alla sera, dà la possibilità di godere appieno di Livorno: girovagare un po’ a caso per la città, mangiarsi un gelato sul lungomare mentre un esercito di salutisti e/o pancettisti fa jogging sul lungomare, perdersi nel labirinto di strade strette e intricate della parte del Duomo nonostante, sigh, il navigatore. Soprattutto c’è tempo per leggersi Il Tirreno, che ci regala sempre grandi emozioni. L’anno scorso fu per l’epopea della “cagnina”. Nuovo anno, nuovo animale! A Livorno, non so se lo sapevate, ma ci sono i barracuda (!). Un tizio forse avvezzo al Diagnosi E Cura lo ha sentito mordergli un polpaccio, e il Tirreno ligio ha riportato fedelmente (virgolettando). Mavalà.
PSYCHO STAGE
Anche lo Psycho Stage pomeridiano era pieno di pancettisti stravaccati che fanno un po’ innervosire lo splendido Samuel Katarro: visto che nessuno si sposta sotto il palco, ad un certo punto augura, in modo sarcastico, “buon bivacco”. Alberto Mariotti (questo il suo vero nome) si presenta stavolta in formazione prettamente a due chitarre elettriche, quasi avesse intrapreso quel percorso naturale che lo potrebbe far arrivare alla band completa, come fu per Jeff Buckley (a cui noi di Kalporz lo paragonammo tra il serio e l’auspicio quando era ancora uno sconosciuto, nella recensione di Arezzo Wave 2006) che dapprima si trovò un chitarrista con cui dialogare bene (Gary Lucas) e poi mise su il gruppo classico con basso e batteria. Affiatamento massimo, Samuel come al solito estroso e soprattutto istintivo, migliora sempre di più. Finale affidato a “Green River” dei Creedence, Katarro chiude il pezzo battendo con le mani sulla cassa armonica della chitarra acustica come si fa con un bongo: se questo non è sentire quello che si sta suonando!
Si avvicenda poi Dente, con il suo spettacolo misurato, pulito, rassicurante se non fosse per i suoi testi particolarmente ironici ma malinconici tra abbandoni e… abbandoni. Bravi i musicisti che lo seguono (erano praticamente i La Spina, tra le migliori realtà della provincia parmigiana), Dente ci è sembrato uno che sta studiando per qualcosa di più, forse il palco di Sanremo, la sua capacità di essere piuttosto universale e trasversale, di raccontare storie “in cui la gente si identifica”, come ci ha raccontato lui stesso nell’intervista che gli abbiamo fatto prima del concerto, lo porterà probabilmente in altri lidi.
“Non c’è due senza te” la più movimentata, con un buon inserto funky. Unico appunto: sarà che il suono della chitarra acustica è come la pizza, ad ognuno gli piace il suo, come dice un mio amico, ma è certo che il suono dell’acustica di Dente proviene diritto da un tombino.
Alle 18 ecco che arriva sul palco Beatrice Antolini, vestita come un evidenziatore Stabilo-Boss. Stavolta la cantautrice bolognese d’adozione si dimostra più a suo agio, meno contratta: impeccabile a suonare come un organista alla Messa lo è sempre stata, forse doveva lasciarsi solo più andare e qui a Livorno la briglia si è sciolta meglio. Molte parti strumentali, accenni reggae gustosi, insomma la Antolini dal vivo ha svoltato, vedremo su disco (devo ammettere però che continua ad essere consigliata solo per gli amanti del genere, verso la fine del concerto lo scontro “lungomare vs. cervellotiche suite gotiche” non aveva confronti).
(Paolo Bardelli)
COMICSWAVE 2009: GILBERT SHELTON
Tra uno Stage e l’altro, vale la pena di menzionare la meritevole iniziativa di ComicsWave, l’italia Wave a fumetti, che ricorda a modo suo l’era di Woodstock con una mostra e un incontro con uno dei grandi nomi del fumetto underground di quei giorni: Gilbert Shelton, creatore dei Fabulous Furry Freak Brothers, Wonder Wart-Hog e di altri antieroi della controcultura a fumetti della Bay Area di fine anni ’60. Nella cornice della Fortezza Vecchia, Shelton ha presentato la sua mostra “Grass Roots: alle radici del Freak” e ha raccontato i suoi sgangherati personaggi a Claudio Curcio di ComiCon e al fumettista e blogger Luca Boschi, ricordando i tempi in cui l’editoria alternativa seguiva percorsi avventurosi e strampalati per portare poche migliaia di copie nei campus universitari e nei circoli culturali, le stesse copie che oggi fanno la fortuna dei collezionisti. Shelton, assieme al maestro Robert Crumb, ha saputo usare la carica dissacrante e corsara delle strisce per raccontare i tratti grotteschi e antiepici della vita e del pensiero “freak”, con la lucidità e il disincanto che probabilmente i mostri sacri di Woodstock e dintorni non acquisirono se non dopo il doloroso down degli anni ’70. Lo stesso disincanto che Shelton infonde ai Not Quite Dead, sgangherata rock band di semi-falliti di cui racconta le preripezie da più di due decenni.
(Stefano Folegati)
MAIN STAGE
Dopo l’abbuffata gratuita dell’inaugurazione, il Main Stage di giovedì ridiventa il palco di un festival tradizionale, con qualche nome internazionale e un headliner dal tiro garantito per una serata che a conti fatti si rivelerà interlocutoria. Quando raggiungiamo lo Stadio Picchi è già ora del cambio palco per i Marta sui Tubi, che ormai sono un affare da palco principale (sembrano passati secoli da quando li si vedeva sotto il sole pomeridiano dello Psycho). Il fatto di essere ormai una specie di istituzione non gli ha comunque tolto la rabbia, anzi: si rischia di essere travolti dalla foga dell’ensemble siciliano, e ancora di più dal loro schizofrenico affastellare stili su stili, registri su registri. Tra una ballata acustica e una cavalcata hardcore Giovanni Gulino arringa le folle con il solito legalizzala, così anche il folklore è salvo.
Non è dato sapere se la Critica della Ragion Pura kantiana abbia qualcosa a che fare con i Pure Reason Revolution, band britannica che ha l’onore di aprire per i connazionali Placebo, ma a naso direi di no. Il loro è un innocuo set di electro pop rock che immagini perfetto per qualche colonna sonora adolescenziale senza troppa fantasia. C’è comunque una discreta dose di mestiere ed entusiasmo, che permette ai PRR di passare abbastanza indenni attraverso le forche caudine delle prime file impazienti per l’arrivo degli headliner.
E’ quasi mezzanotte quando i Placebo guadagnano il palco, introdotti dal muro di schermi che fanno da scenografia al loro set e che annunciano uno show ricco di effetti speciali e curato nei minimi dettagli. Di questo si tratterà: perchè, dopo le chitarre sfasciate a Sanremo e l’aura di ambiguità/maledettismo che li ha resi celebri, la band di Brian Molko sta studiando per diventare una rispettabile band di mezza età, che sa mettere a frutto l’esperienza e i mezzi a propria disposizione per fare intrattenimento di qualità. Un obiettivo più che rispettabile.
I tre Placebo di nero vestiti vengono affiancati da tre turnisti che rimpolpano i suoni, ed è così garantita la botta sull’uditorio, che ci si stupisce quasi di trovare ancora pieno di ragazzini e ragazzine in adorazione: la differenza nell’atteggiamento di Molko nei loro confronti, che da vero fratello maggiore si preoccupa che le prime file non finiscano schiacciate dalla folla idolatrante. Dietro di lui le immagini sugli schermi si ripetono ossessive e ricordano, in bene, blasonati show multimediali come quelli di Radiohead oppure Tool. La scaletta scorre fluida tra brani vecchi e nuovi, Brian si fa cambiare la chitarra ad ogni pezzo e si scivola veloci e senza sbavature verso “Special K” e i bis.
(Stefano Folegati)
ELETTROWAVE
Elettrowave quest’anno cambia location: lasciata l’inespugnabile Fortezza Vecchia, spazio al moderno Palalivorno che però si trova ad una distanza dallo Stadio disincentivante lo spostamento e dunque il numero di persone. In più, per quelle strane logiche non conoscibili per cui un locale una stagione va e la stagione dopo non va più, non c’era l’atmosfera da raduno danzereccio della regione, da rave, che si era respirato, ad esempio, ad Arezzo Wave 2005. Italia Wave va oltre le mode, e gli 8.000 spettatori del primo giorno al Picchi lo dimostrano, ma se vediamo Elettrowave come una “discoteca” – e forzando un po’ lo è – Elettrowave va ad intersecarsi con ciò che trendy e dunque più influenzato da quelle forze misteriose ed insondabili di cui discorrevamo prima.
Comunque: male ha fatto chi non è venuto. I 2Many Dj’s hanno offerto il loro dj-set definitivo, senza più appello, quello che si è fatto tutti i gradi di giudizio ed è già con l’imprimatur della Cassazione. Evidentemente a marzo al Maffia stavano facendo le prove, iniziando a staccarsi dal fare solo i loro classici cavalli di battaglia (i remix di Justice, Klaxsons & others, quelli insomma inseriti in “Most Of The Remixes”) per testare invece i dischi adatti per il loro mash-up conclusivo, quello che ripercorre 40 anni di pop, rock e dance e li unisce tutti insieme: ora ci sono arrivati, lo hanno partorito. Sembra impossibile, ma per i 2Many Dj’s non lo è.
I Ricchi e Poveri mixati con gli AC/DC, “Dolce Vita” che sembra Mixage 1983, i New Order, David Bowie, i Justice, Aphex Twin, gli MGMT, Umberto Tozzi (“Gloria”), questi i flash di una scaletta che sarebbe degna di essere lanciata su una navicella spaziale per farla vedere a qualche amichetto su qualche altro pianeta con la frase: “Hey, questo si ascolta sul fottuto pianeta Terra!”. In perfetto synch sul video poi passano tutte le immagini delle copertine (animate con la tecnica di “South Park”), il che amplifica la sensazione essere al cospetto del “cut-up musicale definitivo”.
Finale, ampiamente simbolico, lasciato ai Nirvana e alla loro “Breed”, che ci lascia tutti sudati ma in grado di comprendere che si è assistito a qualcosa di importante.
(Paolo Bardelli)