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Difficile scrivere in maniera sensata e totalmente critica di un festival che si conferma tra i migliori nel suo genere, con un carnet di artisti da fare invidia al più navigato frequentatore di concerti e che offre – oltre alla musica – un’enorme possibilità di aggregazione culturale della gens europea che, nei primi dieci giorni di agosto, popola la piccola cittadina spagnola di Benicàssim.
Prima di tutto i problemi seri, su centotrenta artisti in cartellone bisognava fare delle scelte. Ed ecco quindi che per insindacabile giudizio di chi scrive, non leggerete di Maximo Park e Kaiser Chiefs, di Hot Hot Heat e Athlete, di Basement Jaxx e Underworld. Oltre al dovere professionale – fra un monte di virgolette – c’è di più e poco importa che queste formazioni siano molto più importanti degli sfigati indies spagnoli che mi sono sentito al loro posto, non si tratta di conoscere più nomi, semplicemente di ascoltare la musica che più piace. è lo spirito del festival, perché tradirlo?
Le giornate passano sotto il sole, facendo spola tra il campeggio, il mare e l’arena dei concerti. Benicàssim sembra immersa nel deserto. Un panorama che ricorda le copertine dei dischi dei Kyuss, dove ci starebbero bene le riprese di un video dei Queens of the Stone Age o un film di Wenders. Sono suggestioni che rendono ancora più particolare l’evento. Ma ad un certo punto dimentichi il caldo asfissiante e hai addirittura voglia di farti dodici ore filate in piedi a vedere e sentire musica, animato da una tensione che ti fa vivere nonostante le poche ore di scomodo sonno e i pochi pranzi consumati. è la vita da festival, un’esperienza che consiglio vivamente a tutti.
Giovedì 4 agosto
I concerti cominciano con un “opening party”, ovvero una manciata di esibizioni sul palco principale – che nelle giornate del festival sarà destinato agli artisti di punta – dove si sono distinti i Posies e i Polyphonic Spree. Il gruppo di Jon Auer e Ken Stringfellow si dimostra energico e potente, capace di infuocare la platea spagnola (che, con nostro sommo sbigottimento, conosceva tutte le canzoni a memoria) con canzoni come “Dream All Day”, “Solar Sister”, “Flavor Of The Month”. Il loro power-pop diventa punk tirato e senza fronzoli e la presenza scenica di Stringfellow lascia ammutoliti: un indemoniato che salta e urla in continuazione. Strano a dirsi, ma stupisce che alla fine del set la band non abbia sfasciato gli strumenti. Diversissimi i Polyphonic Spree, sospesi nella loro aurea sacrale ad intendere la musica come rito collettivo di purificazione. Una delle cose più assurde e bellissime mai viste ad un concerto. Canzoni da dieci minuti intese come veri e propri inni pagani, quasi a seguire un rituale religioso orchestrato da Brian Wilson e Phil Spector. Un pop corale e globale che sotto lo spettacolo alla Jesus Christ Superstar dimostra sensibilità e personalità stupefacenti. Seguirebbero i concerti dei Tears e degli Underworld, ma la voglia di farsi sfracellare i coglioni da Brett Anderson l’avevo lasciata in Italia, così come la volontà di ballare su “Born Slippy”, per cui non ho mai provato l’amore incondizionato che la mia generazione gli riserva.
Venerdì 5 agosto
Con il nuovo giorno nasce la consapevolezza che i giochi stanno cominciando ad essere seri. Ed ecco che, armati della nostra migliore volontà – e della nostra peggiore sete – entriamo nel calderone infuocato delle dodici ore giornaliere di concerti. Sì ok, lo so, non ce l’ha ordinato nessuno quindi potevo anche evitare, ma se avessi agito di conseguenza mi sarei perso una delle più belle scoperte del festival: gli Austin Lace. Primi ad esibirsi all’”Escenario FIB Club”, si tratta di una formazione belga che non fa altro che confermare – un anno dopo i Girls in Hawaii – come il pop fiammingo stia vivendo un notevolissimo stato di grazia. Che poi, a dirla tutta, si tratta di canzoni sceme con testi scemi, ma sono irresistibili e questo basta. Diversi ma non per questo meno affascinanti gli Zephyrs. Gli scozzesi fanno una musica che richiama i Galaxie 500, con tanto di intrecci vocali ed esplosioni sonore. I brani dell’ultimo “Bright Yellow Flowers…” convincono ed ammaliano, lasciando il sottoscritto e gli ignari compagni di viaggio letteralmente a bocca aperta.
Arriva poi il turno di Joseph Arthur. Il pupillo di Peter Gabriel si lancia in un set dove stravolge tutte le sue canzoni, creando sul momento degli impasti sonori di voce, chitarra e tastiera mandati in loop e urlando con voce sgraziata emozionanti frammenti musicali tra cui la lacerante “Mexican Army”. Una resa ottima ma forse un po’ troppo autocompiacente. Alcuni arrangiamenti risultano superflui e rischiano i far annoiare chi non manda a memoria il repertorio del cantautore, che si conferma però uno dei più personali e capaci della sua generazione.
E giunge l’ora degli Yo La Tengo. Posto sul palco principale – “Escenario Verde” – prima dei Cure, il terzetto di Hoboken si lancia in una prestazione viziata da impostazioni dei suoni terribili, fissate su standard che andrebbero bene agli headliner della serata e che per Ira Kaplan si dimostrano quanto di più inadatto possibile, al punto da spingere il Nostro ad alzare i volumi delle chitarre direttamente dagli amplificatori (e chi ha un minimo di pratica live sa che è cosa da non fare. Mai!). Ma il problema era proprio a monte, non si sentiva un cazzo, nemmeno la batteria. Il gruppo ce la mette tutta ma nonostante una conclusiva “Blue Line Swinger” da brividi non possiamo annoverare questo live tra i migliori del festival, ed è un vero peccato viste le responsabilità nulle del gruppo.
Scavalcata l’onda incontenibile degli emuli di Robert Smith – 5 agosto, maglie nere e trucco pesante… ad alcuni il masochismo piace – cerchiamo di assistere al live dei Cure. La generale indifferenza con cui il sottoscritto ha sempre seguito la carriera del capellone d’Albione lo impedisce di formulare giudizi, ma il gruppo sembra comunque svogliato, nonostante un bis all’insegna dell’amarcord con “Friday I’m In Love” e “Boys Don’t Cry” faccia accendere qualche fioca lampadina.
Ce ne andiamo con le note dei Doves nelle orecchie dopo aver snobbato i Basement Jaxx per vedere la guerriglia sonora di Prefuse 73: due batterie e scratch, la cosa più “pesa” che abbia sentito in questa quattro giorni. Ma il meglio era ormai passato, l’attenzione stava scemando e le suggestioni malinconiche del terzetto inglese non hanno fatto molto per impedire la fuga.
Sabato 6 agosto
La giornata di sabato comincia con l’esibizione dei Winter Camp, vincitori di Progetto Demo Francese. La band si dimostra sterile e scontata con un cantante insopportabile che, nonostante la più spesso reiterata mascolinità, ricorda una divetta isterica che se la prende con il pubblico – mandandolo anche affanculo – perché non si muove sulle loro discutibilissime canzoni. Dito medio di risposta mentre aspettiamo la performance di Devendra Banhart: una vera festa. Il protagonista si dimostra uno showman navigato ed ispirato e le canzoni escono finalmente col loro vestito migliore (nella precedente occasione cui abbiamo assistito ad un suo concerto non siamo rimasti granché impressionati). Si ride e si scherza preparandosi al meglio per il concerto dei Kings of Convenience. I norvegesi mantengono le vibrazioni positive di Devendra e si lanciano in uno show tra i migliori di questa tre giorni. Divertiti e divertenti, Eirik ed Erland si mostrano per quello che sono, dei timidi uomini del nord che scrivono canzoni delicate e cullate dalla malinconia. Ed è questa onestà a renderli speciali sul palco dove, a differenza delle prove italiane, si trovano indubbiamente a loro agio.
Doverosa parentesi per gli spagnoli Love Of Lesbians. Il loro indie-rock a tinte fosche a metà tra gli americani Low e i nostrani Perturbazione (!!!???) ha retto il confronto delle aspettative, ma la contemporaneità con il concerto dei norvegesi ha imposto delle scelte.
Un attimo di pausa per riprendere fiato, snobbare i Kaiser Chiefs e recarsi all’Escenario FIB Club per gli Xiu Xiu. Jamie Stewart e Carelee McAlroy non sono esattamente gli artisti che faresti sentire alla tua ragazza per farla innamorare di te – se poi alla tua ragazza già non piacciono il discorso è un altro… – e pezzi come “I Broke Up”, “Crank Heart” e “I Luve The Valleh, Oh” (oltre ai nuovi estratti dal delicato “La Foret”) non fanno altro che confermare la durezza esplicita della loro proposta. Da un lato non sono altro che pop songs totalmente inascoltabili, dall’altro sono la raffigurazione musicale dell’ansia claustrofobia e della paura. Una musica totalmente in funzione della voce tragica, supportata ora da percussioni, ora da strani strumenti a corda, ora da rumori di fondo al limite del minimalismo. Da vedere da single, perché l’amore è cieco, non sordo.
Sconsolato – chi vi scrive è stato l’unico tra i conoscenti ad apprezzare gli Xiu Xiu – il povero cronista cerca riparo nella sala stampa, subendosi gli strascichi di un intreccio di chitarre che potrebbe sembrare Jesus And Mary Chain. La luce? No. Solo i Raveonettes. Basta la parola?
L’ultimo concerto prima della fine del mondo è quello di Richard Hawley, cantautore inglese che all’alba dei quarant’anni ne dimostra ottantacinque e vanta una mise a metà tra Luigi Del Neri e il cantante degli Stadio. I suoi brani però, nobilitano una figura non esattamente affascinante. Love songs da notte fonda tra Dylan e Waits, da suonare al pub quando tutti se ne stanno andando (al punto che il nostro si rivolge al pubblico dicendo: “C’è qualche altro bastardo di Sheffield quaggiù?”).
Ma è quando la stanchezza comincia a farsi sentire che si comincia a fare veramente sul serio. Arriviamo addirittura a subire metà concerto dei Keane, gruppo che avevo già buttato nel Carrello dei Bolliti 2004 e che dal vivo non fa che confermare il mio giustificato astio nei loro confronti. Brutti da vedere e da sentire, non si capisce come abbiano fatto a riempire l’Escenario Verde con il loro pop mellifluo che vede addirittura l’unico stage diving del festival (e quando uno del pubblico fa stage diving durante i Keane, qualcosa non va). Tutto questo non per masochismo implicito, ma per arrivare ad una distanza umana dalla coppia di artisti per cui siamo principalmente andati a Benicàssim: Lemonheads e Dinosaur Jr. Vi avverto, prendete quello che segue come il delirio di un fan, probabilmente quello che ho scritto non è vero a livello oggettivo quindi spalmateci una bella patina di filtro.
I Lemonheads salgono sul palco senza nemmeno un roadie – giusto un J Mascis qualunque a portare la scaletta – si accendono da soli gli amplificatori e si accordano gli strumenti come se fossero gli ultimi arrivati alla prima “Battle of Bands”. Un atteggiamento umile in linea con la loro carriera e le vicende personali di Evan Dando. Ed è alla luce dei suoi problematici trascorsi personali (alcool, droghe, cose così…) che ci si commuove a vederlo con la sua chitarra, sereno e felice, addirittura emozionato nel sentire il pubblico cantare le canzoni di “It’s A Shame About Ray” e “Come On Feel”. E chissà che cos’ha provato quando, alla fine del set, è stato richiamato a gran voce per un set voce+chitarra che si è prolungato in un medley di una decina di minuti incurante delle minacce degli assistenti di palco. Un uomo felice che avrebbe suonato tutta la notte se non fosse stato letteralmente portato via dall’Escenario Verde. Un’ora capace di farti piangere di gioia per aver ritrovato un amico in forma come ai suoi tempi migliori.
Tempi migliori come quelli rievocati dai Dinosaur Jr. Non vi mentiamo, abbiamo reperito le loro espressioni discografiche solo in tempi recenti in quanto impossibilitati dal piccolo problema temporale di essere nati tra “Dinosaur” e “You’re Living All Over Me”. Raccogliendo diverse testimonianze da chi in quegli anni era riuscito a vederli dal vivo – e si tratta anche di gente cui vi fidate per comprare i dischi – mi era stato detto di loro come di persone francamente inascoltabili. E non per il volume assurdo, proprio perché non si capiva un cazzo di niente. Bene. Detto questo, sembra quindi che J, Lou Barlow e Murph abbiano imparato a suonare in questi lunghi venti anni. La scaletta propone solo pezzi dei primi tre dischi – gli unici di cui Barlow sappia le canzoni – ma mai ci saremmo immaginati una tale carica, una tale forza, una tale apocalittica potenza. I volumi, che sono veramente esagerati, diventano quasi necessari per sottolineare l’urticante mascolinità del loro rock macchiato di hardcore e suonato con vigore proto-metallaro (gli assoli di Mascis, ridondanti al limite del tamarro ma assolutamente catartici). Murph è una macchina da guerra mentre Lou Barlow violenta il suo Rickenbacker e vomita nel microfono “Bulbs Of Passion” e “Just Like Heaven” dei Cure. E in mezzo lui, Mascis, che con la sua Jazzmaster e il suo muro di amplificatori regala una visione del mondo talmente distorta, vorticosa e apocalittica da farti dimenticare tutto il resto. Da lasciarti a bocca aperta, inebetito. Motivo per il quale dopo questo uno-due micidiale quasi si avrebbe voglia di lasciar perdere, perché tutto quello che sarebbe venuto dopo sarebbe stato privo di senso, sciapo, addirittura fastidioso. Sono concerti del genere a sconvolgerti l’esistenza, facendoti capire che in fondo non puoi fare a meno di queste dodici ore di live interrotti e di tutta questa pletora di inutilità che fa da contorno per la succulenta portata principale. L’importante era esserci, ma non per vantarsi, quanto per vivere un’esperienza da poter ricordare con felice commozione, oltre al quale il resto svanisce. E capite che in una tale condizione mentale vedere i Radio 4 non era esattamente una mia priorità (non che normalmente…).
Domenica 7 agosto
L’ultima giornata è invece aperta dall’orgoglio del Belpaese: Les Fauves, il terzetto vincitore di Progetto Demo Italiano che sul palco conferma i meriti del suo successo con un rock’n’roll macchiato di garage da far invidia – e non lo diciamo per campanilismo – a parecchi colleghi d’oltreoceano che godono di maggiori palcoscenici. Certamente da non perdere perché capaci di imbastire un live-set senza fronzoli ma diretto al punto giusto per carpire l’attenzione. Tra i giovani in cartellone, probabilmente i migliori assieme ai tedeschi Dalles, artefici di un bruciante concerto punk tra (International) Noise Conspiracy e Hives che ben ci fa sperare per le future prove discografiche… certo, ad essere onesti non c’è un cazzo di veramente caratteristico, ma si tratta di quell’anonimato da giacchetta di pelle che non fa mai male sentire. Infondo, ci siamo riempiti la casa di un sacco di dischi inutili fondamentalmente peggiori di questi qui, che tra l’altro non hanno niente di pretenzioso e tengono bene il palco (a differenza – per restare tra i pari-peso – dei Winter Camp).
Ma le sorprese non sono finite, anzi. Dopo i crucchi punkettoni, la tenda Escenario Fiberfib comincia a popolarsi di ispanica gente. Sul palco devono salire i Lori Meyers, che per noi non sono che un nome su un cartellone. Ed ecco che arrivano questi quattro poco-più-che-ventenni dall’aspetto ordinario e senza nessun’aria da rockstar – il pienone dell’audience farebbe pensare al contrario – di cui ci siamo innamorati sin dal primo accordo. Porca puttana: i Teenage Fanclub! Ebbene sì! I chitarroni spagnoli altro non sono che un irresistibile gruppo guitar-pop che sulla melodia e la freschezza ha basato la scrittura di canzoni ad alto tasso di contagio. Mai avrei pensato di interessarmi con l’afrore dei bei tempi per un combo di sciamannati autoctoni al punto da cercare “Viaje De Estudios”, unico disco dei Nostri che consiglio a chi del pop non riesce a stancarsi. Così come mai ci stancheremo delle canzoni indolenti e svogliate degli hobo senza tempo, di chi inala l’aria del deserto e ne mangia la sabbia. Ambiente ideale per un Michael Gira, un John Convertino, un Howe Gelb. Ne arriva però l’emulo spagnolo, tal Señor Chinarro (letteralmente: Signor Carciofo). Strano e mal vestito personaggio capace di evocare il rock-folk dei migliori Giant Sand e mescolarlo con lo scazzo di chi si trova su un palco per caso. è la seconda sorpresa importante della giornata, che ci accompagna alla sera con l’autorevolezza delle belle canzoni, le stesse dispensate a rullo continuo dai Wedding Present.
Gli inglesi, tornati giusto quest’anno col nuovo “Take Fountain”, si lanciano in una sarabanda di vecchi ricordi all’insegna dei brani storici – ai tempi, il gruppo di David Gedge era nelle grazie di John Peel – tra jangle-pop, punk ’77 e hit che non avrebbero sfigurato nel repertorio degli Smiths. Il tutto suonato con la grazia di quarantenni mai domi che farebbero impallidire, per vitalità e voglia di fare, tutta la scena inglese degli ultimi anni. Così diversi, per esempio, da quegli Oasis che vedremo di lì a poco.
Ma dove finisce la freschezza delle three minutes pop songs comincia una nuova maledizione: la stanchezza. Approfittiamo delle scarse attrattive in scena in quel lasso di tempo (gli Hot Hot Heat) per riprendere fiato e prepararsi a seguire attentamente Nick Cave and the Bad Seeds. Sia detto: grandissima professionalità, grandissime canzoni, grandissima presenza scenica, ma ci dev’essere qualcosa nel sottoscritto che gli impedisce di apprezzare appieno King Ink. Eppure le caratteristiche ci sono tutte: australiano, maledetto, nevrotico, istrione, cupo. Insomma, siamo in territori che non abbiamo fatica a perlustrare, ma ad eccezione di “Tupelo” non c’è stato quel trasporto che speravo ci fosse. Credo sia un problema mio, il concerto in sé è stato impeccabile, con una scaletta dimentica degli ultimi episodi discografici (tranne “Abbatoir Blues”) e una band che, nei momenti più tirati, si dimostrava letteralmente devastante.
Discorso inverso per gli Oasis. La colonna sonora dei primi anni della mia adolescenza suonava i brani di “Definitely Maybe” e “Morning Glory”, ma oltre l’affetto che si può provare per canzoni come “Wonderwall”, “Live Forever”, “Cigarettes And Alcohol”, “Morning Glory”, “Champagne Supernova” e “Don’t Look Back In Anger” – tutte presenti in scaletta assieme a cinque estratti del nuovo “Don’t Believe The Truth”, lasciando giustamente a casa i precedenti tre dischi – che conservano la loro bellezza oltre gli anni e le rughe, bisogna tristemente constatare che la band non ce la fa più. Liam Gallagher non ha voce, gracchia e biascica nel microfono salutando i bei tempi andati mentre Noel non si muove mai dalla sua postazione confermando una presenza scenica al cui confronto il Colosso Di Rodi è Bruce Springsteen. E se aggiungiamo dei suoni pessimi – non si sentivano le chitarre – che incidevano non poco all’economia globale, facciamo presto a concludere che, sentimentalismi a parte, si è trattato di un concerto del cazzo.
Con i piedi che reclamano pietà, facciamo un ultimo sforzo per vedere i Kasabian di cui tanto bene avevamo parlato in sede di recensione. Ecco, dal vivo le canzoni non mantengono la potenza sbruffona che era punto di forza del lavoro in studio. Possiamo anche qui dare la colpa ai suoni che svantaggiavano la chitarra e il basso a favore del perenne sintetizzatore. Certo, la presenza scenica di Pizzorno e soci resta notevole e il loro groove fa anche muovere il culo. Ma sotto il profilo meramente critico, rimandiamo gli inglesi ad una nuova occasione, sperando in una più positiva impressione.
Ultimo agonizzante sforzo per gettare un orecchio verso LCD Soundsystem. Per posizione personale motivata dagli ascolti cui sono stato vittima, sono sempre stato scettico nei confronti della cosiddetta scena punk-funk e di tutta quella pletora di gruppettini con la cassa in quattro. Ma devo ammettere che per quanto potessi essere vigile, la velocità supersonica cui James Murphy lancia le sue canzoni le rende migliori rispetto ai dischi, aumentandone la componente psichedelica e selvaggia. Ma è l’ultimo rantolo prima della fine. Ci sarebbero ancora concerti elettronici fino al mattino, ma non è la nostra tazza di the, per cui scriviamo la parola fine al nostro Festival Internacional de Benicàssim 2005. Un festival che ci può ritenere soddisfat… no, di più. Ci siamo semplicemente innamorati. Oltre ad un cartellone che, nonostante le malelingue, non ha rivali e concerti che ci hanno strappato pezzi di cuore, è l’atmosfera a rendere speciale tutto.
Andando in giro per la città (prima) e per l’arena dei concerti (poi), potevi vedere questo senso di comunità che aleggiava tra i giovani accorsi per l’evento. Si sentiva nell’aria che questa quattro giorni non è soltanto musica e birra, ma una festa continua, quasi un’ode alla vita che, dai sacri carmi dei Polyphonic Spree ai rave afrodisiaci di LCD Soundsystem, superava le barriere dei generi, le limitazioni geografiche, le differenze culturali, unendo tutti su un’universale bandiera che – fanculo al romanticismo – rendeva il popolo di Benicàssim semplicemente Bello.
Poi arriva il day after, smonti la tenda mentre dalla vita in giù il tuo corpo ha deciso di non rispondere ai comandi, osservi i resti disastrati della tua piazzola mentre studi la strada migliore per raggiungere l’aeroporto di Valencia e metabolizzi la fine di un qualcosa destinato a segnare chi la musica la vive, la mangia e la respira. E forse i fiumi di parole che hanno preceduto queste ultime svenevoli considerazioni lasciano il tempo che trovano, ma non è altro che un fermo immagine di quattro giorni vissuti in continuo movimento, cibandosi di vibrazioni e adrenalina, cercando di assaporare al meglio ogni istante.
Ma ogni storia finisce… per dirla come Evan Dando, “He kinda shoulda sorta woulda loved her if he could’ve/The story’s getting closer to the end.”