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di Alberto
Prima giornata (6 agosto)
Al suo decimo anniversario il FIB si presenta con quello che può essere considerato il cartellone più ricco fra gli avvenimenti dell’estate 2004. Almeno sulla carta. I Kings of Leon sono la prima grande (?) attrazione della giornata. Lo spettacolo è disarmante: un’ora di accordi sentiti e risentiti, ma suonati peggio e senza la minima ombra di un certo gusto o attitudine particolari. Tra un pezzo e l’altro il frontman si preoccupa esclusivamente di tenere in ordine il suo nuovo taglio di capelli. La cosa sconvolgente è che sotto la tenda il pubblico non la finisce mai di saltare… Poco dopo, sul palco meno mainstream del festival, Her Space Holiday assesta il colpo di grazia con il suo eclettico impasto di campionamenti hip-hop su cui una voce malinconica e monocorde canta qualcosa di inesistente. Meglio con i Tindersticks, il cui unico limite è, paradossalmente, suonare nello spazio immenso dell’ “escenario verde”, poco adatto a ballate intimiste e toni confidenziali. Un vero peccato, viste le perfette esecuzioni da parte di un gruppo che appare in forma e divertito. L’uomo più polemico non poteva che essere lui, Blixa, con i suoi amici-terroristi sonori di sempre. Gli Einesturzende Neubauten stanno per dare una lezione alla “fastidiosa musica proveniente dagli altri stage”. E la impartiscono alla perfezione saccheggiando l’ultimo “Perpetuum Mobile”, con l’immensa title-track a farla da padrone, e proponendo furbi ripescaggi dal passato, ottenendo un’ottima risposta da un pubblico sempre più eccitato. Blixa lancia invettive come un ossesso e, tra un acuto e qualche stazione radio passata in loop, con fare malizioso si strappa di dosso il braccialetto-pass dell’organizzazione e lo lascia cadere sul pubblico. Contundenti è la parola esatta. Tristezza infinita per i Pet Shop Boys che in una scenografia bianca al neon performano un varietà dove tutto il trash non è voluto, e tutto è trash. Quando riprendono “Where the streets have no name” mi viene quasi da piangere. Anche questa volta, è un gruppo tedesco a mettere in salvo la reputazione di una giornata incerta: signore e signori, gli sferraglianti ed inimitabili Kraftwerk. Senza falsi sentimentalismi, la cosa più bella è sentire i tuoi pezzi preferiti sparati a volumi altissimi: quattro signorotti immobili per un’ora davanti ai loro portatili renderanno bene l’idea robotica della loro arte, ma di certo non inviteranno ad un’eccessivo movimento fisico. Per tutta risposta, il pubblico canta e fischietta in coro.
Seconda giornata (7 agosto)
I Teenage Fanclub sono immensi e suonano il primo concerto giusto al posto giusto (la più grande delle due tende) dell’intera manifestazione, all’insegna di una giornata decisamente più rockeggiante della prima. L’energia e l’attitudine profusa dagli scozzesi andrebbe presa a modello dalla stragrande maggioranza dei gruppi in cartellone e non solo. “The Concept”, in chiusura, basterebbe da sola a spazzar via tutte le eteree canzoncine tanto in voga nel territorio spagnolo. Nel frattempo dagli enormi video arriva la notizia della disfatta di Morrissey, bloccato da “un improvviso scalo a Londra per problemi tecnici dell’aereo” su cui viaggiava. Sicuro. Facendomi strada fra le facce sempre più tristi dei fan dell’ex-Smiths, mi preparo ad assistere alla grandissima performance di Yann Tiersen, qui meglio conosciuto come “quello di Amelie”. Il polistrumentista francese delizierà i presenti con un concerto di coerenza assoluta. Incredibili partiture per piano disturbate dalle scosse elettriche della chitarra; violentissime prove violino-voce dove lo strumento cadeva a pezzi esausto; piano e fisarmonica suonati contemporaneamente per orchestrali temi a salire. Il tutto svolto da un Iggy Pop passato per il conservatorio: un microfono stenta a funzionare dopo diversi interventi tecnici, lui lo lancia sul pubblico. Lou Reed si presenta sul palco verde con una formazione a quattro occasionalmente accompagnata da un violoncello: il risultato non può che essere diretto, aspro e privo di fronzoli. Tutto quello che si può chiedere all’uomo di New York. Reed posa e mostra i bicipiti, urla e recita, tetro ed imponente, mentre si inerpica su una scaletta magistrale e piena di classici Velvet. “Perfect day” viene avvolta nella totale pulizia di un crescendo chitarristico minimale, “Venus in furs” fluttua su violoncello e chitarra, “Sweet Jane” è inevitabilmente cruda e rumorosa. Il nostro si lancia in intensi e tragici assoli seguito da un gruppo a cui impartisce le coordinate con dei semplici gesti o addirittura sguardi. Si cambia decisamente atmosfera con Belle & Sebastian, che abituati a trasformare tutto in festa, trovano a Benicassim l’ambiente ideale ed un pubblico straordinario che ne intona ogni brano. Geniale, in assenza di Morrissey, la scelta di eseguire “The boy with the torn in his side” e ottenere trentamila gole squarciate. Serial killer è la parola esatta. A chiudere una seconda giornata all’insegna delle chitarre i Primal Scream. Gasati ed indisponenti fino all’osso, si presentano sul palco all’insegna di una ribellione stereotipata da manuale. La potenza sonica sprigionata è da attribuire più all’impianto che all’impegno dei gallesi. A dir la verità, anche quando Mani prende a calci un tecnico di passaggio o quando Gillespie sfascia il quinto microfono di seguito, sembra di guardare un programma che si disarticola preciso ed inarrestabile, ma pur sempre piacevole. Le incursioni elettroniche di “Swastika Eyes” o “Miss Lucifer” non nascondono quello che è uno spettacolo per sole chitarre, hard, punk ed acide. Il caos regna sovrano sopra e sotto il palco. Evviva.
Terza giornata (8 agosto)
Patrick Wolf si presenta solo, accompagnato da basi campionate di drum’n’bass a cui aggiunge chitarra e violino. Ne viene fuori qualcosa di orribile all’udito e addirittura alla vista, con i suoi calzettoni da elfo-accattone che saltellano insieme agli sbadigli. I Love si presentano sul palco con un Arthur Lee completamente ubriaco. Rischia più volte la caduta, blatera quelle che dovrebbero essere canzoni immortali come “Alone, again, or”, cerca addirittura di accompagnarsi con la chitarra mentre il resto del gruppo va avanti imperterrito, e i primi fischi si fanno strada verso quella che si definisce come una farsa. Quelli che scelgono di rimanere sembrano quasi aspettare con ansia la caduta di Lee, ormai impegnato da diversi minuti in una lotta all’ultimo sangue con l’asta su cui non riesce a riporre il microfono. Saranno i Wire a dimostrare come si può invecchiare preservando la lucidità di sempre. Newman salta come un bambino, urla e rumoreggia sulla chitarra mentre il punk futurista di “Send” s’impossessa dei giovanissimi accorsi. I suoni saturi e percussivi dell’ultimo lavoro (suonato quasi per intero) tengono tutti col fiato sospeso, ma non mancano pezzi targati addirittura ’77 come “Strange” e “Pink Flag”. Una scarica di adrenalina ed arte. Per la giornata della nostalgia sixties dopo i Love spetta a Brian Wilson calcare la scena, la cui unica differenza è quella di non essere ubriaco. Wilson è seduto al centro di un numerosissimo gruppo e, nonostante si impegni, proprio non riesce a contribuire in modo sostanzioso alla causa, finendo così per apparire come un pretesto che giustifichi lo spettacolo e scagioni i suoi dall’accusa di cover-band. Ma lo show è anche questo: quando si scatenano “I get around” , “God only knows” o “Wouldn’t it be nice” viene solo voglia di dondolarsi. I Franz Ferdinand vincono il titolo di gruppo più acclamato del festival. Saranno i movimenti di Kapranos, il look minimale della band e dello stesso stage (solo i loro amplificatori ed un set di batteria ridottissimo) o il fatto che “Take me out” è il pezzo più suonato dai dj che si alternano nell’after-festival, ma dopo le prime note una leggera sensazione di piattezza s’impossessa di me. Il voto è comunque positivo per un gruppo che suona veramente e bene, ma, a parte le fasi più chiassose (i singoli), i brani del fortunato esordio quasi non si distinguono e quando viene presentato un nuovo brano, c’è voglia di sperare che sia incompleto, tanta è l’inutilità del suddetto. Gli Spiritualized incantano i pochi (rispetto al solito della zona verde) accorsi al cospetto di sua maestà Jason Pierce. Il gruppo è raccolto in un cerchio oracolare, Pierce è seduto, sulla destra e di lato rispetto al pubblico: resterà immobile per tutta la durata del concerto. “Come together” e “I think I’m in love” sono dei veri e propri trip spaziali con distorsioni su distorsioni, trombe, organo e slide chitarristici, armonica e voci trascinate e sognanti. Un’esperienza psichedelica totale dove trovavano posto anche le sfuriate più elettriche del santone britannico, ispirato, avvolto in trance dai sui stessi assoli, silenzioso e volenteroso solo di suonare all’infinito. I Dandy Warhols rappresentano il rovescio della medaglia. Orribili, ma come al solito acclamati da un pubblico che ormai stento a definire normale, succube di quella che chiamerei una “tacita dittatura del sorriso”, tipicamente spagnola. Spetta ai Chemical Brothers la chiusura del festival. Per più di un’ora e mezza i due dj’s superstar fanno saltare tutta Benicassim registrando così la risposta fisica più alta delle tre giornate. Suonano tutto quello ci si aspetti che suonino, aiutati da un impianto perfetto e soprattutto dalle immagini dei Vegetable Vision, che non si risparmiano laser, fumi e allucinazioni da trasmettere sui megaschermi. Si conclude così al meglio una manifestazione che lascerà il segno nelle menti dei presenti, tre giorni di sole e musica asfissianti, con qualche ombra iniziale subito recuperata da un voluto effetto a salire, da parte di un’organizzazione praticamente perfetta: al FIB, quando c’è qualche problema, è sempre colpa degli artisti. E non è poco.